È uno dei più grandi giacimenti di petrolio al mondo. Zubair si trova a una ventina di chilometri da Bassora, sud dell'Iraq. Dal 2009, sei anni dopo l'inizio dell'occupazione militare guidata dagli Stati Uniti e sostenuta dall'Italia, Eni sfrutta il petrolio di questo blocco insieme alla Korea Gas Corporation, all'americana Occidental petroleum corporation e alla compagnia statale irachena Missan oil company.

È l'unica concessione irachena in cui Eni è attiva. E pesa parecchio sulla produzione totale: secondo la relazione finanziaria annuale, nel 2023 dal giacimento sono arrivati 14 milioni di barili di petrolio equivalente, pari al 2,3% del totale prodotto nel mondo dalla società controllata dallo stato italiano.

Zubair è una concessione enorme. All'interno c'è una città di circa 370mila abitanti chiamata Az-Zubayr: alla periferia settentrionale sorge Shuaiba, un'area residenziale situata a meno di un chilometro dai pozzi petroliferi sfruttati da Eni. L'hanno visitata i colleghi della testata locale Al-Mirbad, che hanno collaborato a questa inchiesta sul gas flaring intitolata “Burning Skies”, realizzata da Domani insieme al consorzio di giornalismo investigativo ambientale Eif e Eic.

Shuaiba è un'area residenziale situata a meno di un chilometro dai pozzi petroliferi sfruttati da Eni, all'interno della concessione Zubair. In lontananza, sulla destra, le fiamme indicano la combustione di gas (credits: Al-Mirbad)

A sette chilometri da Shuaiba c'è Rumaila, prima in assoluto nella classifica delle concessioni che emettono più gas flaring tra i 18 Paesi di Africa e Medio Oriente analizzati. Zubair è poco sotto, in terza posizione.

Tumori, eruzione cutanee, malattie respiratorie

Gli abitanti di Shuaiba ci vivono dentro: l'area è circondata dalle fiamme che bruciano in vetta alle torri petrolifere. Hadi Khattar Al-Asadi, soprannominato Abu Saleh, ha 40 anni e lavora come ferroviere a Bassora. Fa parte di una famiglia tribale di Shuaiba, vive in un mudhif (casa tradizionale fatta di canne, tipica del sud dell'Iraq), indossa kefiah e dishdasha.

Racconta che ha perso la sua prima moglie a causa di un tumore. Si è risposato, ma poco dopo il matrimonio il Centro oncologico di Bassora ha diagnostico un cancro anche alla seconda moglie: le hanno asportato uno dei due seni, ora sta facendo le cure. «I medici che l'hanno visitata dicono che probabilmente dipende dalle sostanze inquinanti derivate dall'estrazione petrolifera», racconta il marito. Non è l'unico caso del genere riscontrato nella zona.

Nella foto la seconda moglie di Hadi Khattar Al-Asadi, uno dei residenti di Shuaiba. Le è stato diagnosticato un cancro al seno (credits: Al-Mirbad)

Nell'autunno del 2022 la Bbc ha raccontato che, secondo un rapporto trapelato dal Ministero della Salute iracheno, dal 2015 al 2018 nella zona di Bassora l'inquinamento atmosferico aveva causato un aumento del 20 per cento dei casi di cancro. In seguito, l'allora ministro dell'Ambiente, Jassem al-Falahi, riconobbe che la produzione petrolifera era stata la causa principale dell'aumento dei tumori nella zona.

Quanto abbiamo visto durante la nostra visita, nelle scorse settimane, fa pensare che le cose non siano cambiate molto rispetto a due anni fa.

Wujood Al-Safi, residente nel piccolo villaggio di Al Sharish (70 chilometri a nord di Bassora, sulle rive dell'Eufrate), ci ha detto di aver già perso cinque membri della famiglia a causa delle trivellazioni. Tutti morti per tumori. Al-Safi assicura che solo nella via dove abita ci sono in tutto 11 persone malate di cancro. «Sui pacchetti di sigarette ci avvertono che fumare fa male, ma non ci dicono anche che queste fiamme mettono a rischio la vita di milioni di persone», si sfoga.

Torri petrolifere bruciano gas nella concessione di Nahr bin Omar, a 50 chilometri a nord di Bassora (credits: Al-Mirbad)

Siamo vicino alle concessioni West Qurna 1 e West Qurna 2, in mano rispettivamente all'americana ExxonMobil e alla russa Lukoil. Qui incontriamo Hassan Abdul-Ameer, 40enne, attualmente senza lavoro. Ci tiene a mostrarci le condizioni di uno dei sui figli, Fadhil, la cui pelle è puntellata di bolle e croste. «Le ferite sono talmente tante e dolorose che non riesce neanche ad andare a scuola: tutto questo dipende certamente dall'inquinamento petrolifero», dice.

Hassan Abdul-Ameer mostra la schiena di suo figlio Fadhil

Eni: «Non siamo operatori di Zubair»

Nei suoi dati pubblici sul gas flaring, Eni non include Zubair. Alle nostre domande, la compagnia ha risposto spiegando di essere «appaltatore attraverso un contratto di servizio tecnico (Tsc)», e che «pertanto Eni non possiede né è operatore di Zubair».

Chi è allora l'operatore, cioè il responsabile del gas flaring? «Il giacimento», ci ha risposto Eni, «è gestito da un ente no-profit denominato Zubair Field Operating Division (Zfod), senza poteri decisionali. Basra Oil Company (Boc), società di Stato, è proprietaria del giacimento e degli asset di Zubair, in particolare della totalità del petrolio greggio e del gas associato prodotti.

Pertanto, la strategia di sviluppo, compreso il contenimento delle emissioni, resta prerogativa di Boc. La Basra Gas Company ha l'obbligo contrattuale di raccogliere il gas associato a Zubair per conto di Boc».

Sulla base di queste ragioni, Eni non si attribuisce gli enormi volumi di flaring prodotti dal giacimento, di conseguenza non mette a bilancio le emissioni di Co2 equivalente. Quando l'abbiamo interpellata, la società ha voluto ricordare che «collabora» con l'azienda locale Basra Oil Company «per ridurre e minimizzare il gas flaring e per valorizzare il gas associato», tra gli esempi concreti di questo sforzo ha citato la realizzazione di «una centrale elettrica a gas in funzione dal 2021».

Sui danni creati dal flaring, Eni assicura di monitorare «la conformità ambientale» e di impegnarsi «nell'assistenza sanitaria di Bassora con iniziative dedicate alla diagnostica oncologica, all'assistenza sanitaria pediatrica e a una moderna unità di scansione Pet, con un investimento che supera i 32 milioni di dollari».

I documenti che contraddicono la versione di Eni

Mentre per tutti i giacimenti in cui è operatore Eni attribuisce a se stessa il 100 per cento del gas flaring prodotto (così ci ha assicurato la compagnia), per Zubair non funziona così: come detto, la società dice di essere solo un fornitore del giacimento, ma di non essere assolutamente l'operatore.

Ci sono però documenti che sostengono l'opposto. C'è ad esempio uno studio pubblicato nel 2019 dalla Banca Mondiale, intitolato “La ricostruzione dell'Iraq dopo il 2003” e firmato dall'economista Hideki Matsunaga, in cui Eni viene decritta come unico «operatore» della concessione. La fonte dell'informazione, si legge nella ricerca, è l'Agenzia internazionale per l'energia (Iea).

A confermare la stessa cosa è anche il registro Pcld (Petroleum contracts and licensing directorate) del Ministero del Petrolio iracheno. Inoltre, in un comunicato stampa del 3 marzo 2016 è la stessa Eni a metterlo nero su bianco: «Zubair, che si trova nei pressi di Bassora nel sud dell'Iraq, è operato da Eni per conto della società di Stato irachena South oil company», si legge.

Quando glielo abbiamo fatto notare, Eni ci ha risposto così: «Il nostro comunicato del 2016 era evidentemente riferito al fatto che, nell’ambito del Technical service contract, Eni opera sul campo con un servizio di supporto tecnico per un asset che appartiene nella sua totalità a Basrah oil company (al tempo denominata South oil company)».

Nel grafico che riassume i volumi di gas flaring prodotti da Eni dal 2012 al 2022 abbiamo inserito anche quello proveniente da Zubair. Se anche l'azienda italiana lo facesse, i suoi numeri sul metano bruciato in torcia risulterebbero molto più alti. Dalle nostre stime risulta infatti che in 11 anni il blocco iracheno ha dato alle fiamme 20,3 miliardi di metri cubi di gas.

Una quantità pari a quella di tutti gli altri nove giacimenti che compongono la classifica. Per capirci, nel solo 2022 Zubair ha mandato a combustione 2,5 miliardi di metri cubi di gas: è più di quanto Eni ha dichiarato quell'anno per tutti i giacimenti del mondo in cui è azionista o operatore. Si capisce dunque il ruolo determinante di Zubair nei numeri dichiarati dalla compagnia.

Numeri importanti per il Cane a sei zampe: l’azienda guidata da Claudio Descalzi ha infatti promesso di azzerare entro il 2025 il flaring di routine da attività upstream, passaggio cruciale per raggiungere l'obiettivo ancora più importante, cioè quello di annullare le emissioni nette (Scope 1 e Scope 2) entro il 2035. Ad ogni modo, se anche si escludesse il contributo di Zubair dai volumi di gas flaring prodotto, i conti non tornerebbero.

Pur sottraendo il metano bruciato da Zubair nel 2022, le nostre stime indicano che Eni nel 2022 ha prodotto 2,8 miliardi di metri cubi di gas flaring. La compagnia italiana, invece, ne ha dichiarati 2,1 miliardi. Ci sono insomma 700 milioni di metri cubi di gas mancanti. E potrebbero non essere gli unici, visto che i dati dichiarati da Eni riguardano tutti i Paesi del mondo in cui opera la compagnia, mentre i nostri calcoli considerano solo 18 paesi di Africa e Medio Oriente.


Questa indagine fa parte della serie "Burning Skies: dietro le fiamme tossiche di Big Oil", sviluppata da EIF, un consorzio globale di giornalisti investigativi ambientali, in collaborazione con la rete europea EIC (di cui fa parte Domani) e i suoi partner Daraj, Source Material, Oxpeckers Investigative Environmental Journalism. Questa serie è stata sostenuta dal JournalismFund Europe.

© Riproduzione riservata