In America latina vengono ancora assassinati centinaia di difensori dell’ambiente ogni anno, mentre in Europa (e in Italia) i meccanismi di repressione nei confronti dei movimenti per il clima diventano sempre più sofisticati ed efficienti. Insomma, è come se al mondo non ci fosse più un luogo sicuro dove battersi per la lotta ai cambiamenti climatici e la tutela degli ecosistemi. In occidente, c’è il carcere, nel sud globale si rischia di finire ammazzati.

Come ogni anno, il rapporto della Ong Global Witness è una mappa sconfortante del costo umano che c’è dietro la difesa dell’ambiente, soprattutto nei paesi con più biodiversità, con un chiaro epicentro della violenza in centro e sud America.

Con questo studio pubblicato ogni anno all’inizio dell’autunno, Global Witness conta quante sono le vittime in tutto il mondo della violenza contro l’attivismo ambientale. Nel 2023, gli omicidi dei difensori dell’ambiente sono stati 196. Dal 2012 a oggi sono stati 2106.

In tutti questi rapporti annuali della Ong viene specificato che questa è una stima per difetto, che i numeri reali potrebbero essere più alti, e che Global Witness conta soltanto i casi in cui il legame con una battaglia ambientale della persona assassinata sia certo e provato.

Il più pericoloso

Il paese al mondo dove è più pericoloso lottare per una causa ambientale è stato, per il secondo anno di fila, la Colombia, con 79 omicidi, 19 in più dell’anno precedente, seguita dal Brasile (25 vittime), dal Messico e dall’Honduras (entrambi 18 vittime). In tutta l’America meridionale sono stati 112 gli omicidi, in quella centrale 54.

La mappa della violenza porta evidentemente lì. Questi dati sono un motivo di imbarazzo per il governo colombiano. A ottobre, il paese ospiterà la Cop16 sulla biodiversità a Calì, il cui slogan sarà «fare pace con la natura», una frase non facile da pronunciare in un paese dove decine di persone vengono ammazzate ogni anno proprio per questo motivo.

La Colombia del presidente Gustavo Petro ha provato ad assumere una postura progressista sulla scena della diplomazia ambientale, anche alla Cop28 di Dubai sul clima la ministra dell’ambiente Susana Muhamad era stata una protagonista in positivo del negoziato, con la scelta di mettere un freno alle nuove estrazioni di petrolio (di cui la Colombia è esportatrice). Questo lavoro reputazionale e politico però rischia di essere compromesso se il paese non troverà il modo di proteggere i suoi attivisti, la metà dei quali viene uccisa dalla criminalità organizzata. Gran parte delle vittime, inoltre, vengono da comunità indigene e rurali.

Intanto, in occidente chi fa proteste pacifiche non violente per il clima e l’ambiente rischia sempre più concretamente e spesso il carcere. La denuncia di Climate Rights International non è la prima degli ultimi mesi: ricordiamo anche gli allarmi dell’inviato speciale delle Nazioni Unite Michael Forst, che addirittura aveva detto che incarcerare gli ambientalisti mette a rischio la credibilità democratica dei paesi occidentali.

L’ipocrisia

Climate Rights International mette l’accento su un punto di vista interessante: l’ipocrisia. I paesi dell’Unione europea, il Regno Unito, gli Stati Uniti sono (giustamente) pronti a denunciare autocrazie o dittature per le violazioni dei diritti civili e politici, ma violazioni paragonabili avvengono anche nelle democrazie, sulla pelle degli attivisti per il clima. Nel Regno Unito ci sono cinque persone che stanno scontando condanne in carcere a pene tra quattro e cinque anni per aver collaborato per organizzare il blocco pacifico di un’autostrada. E situazioni analoghe, secondo Climate Rights International, possono essere osservate in Australia, Francia, Germania, Svezia, Olanda.

E l’Italia? Si sta progressivamente allineando. Mentre gli attivisti di Ultima generazione ed Extinction Rebellion sono sottoposti alla pressione continua di perquisizioni, fogli di via e sorveglianze speciali, gli emendamenti al ddl sicurezza passati alla Camera sembrano pensati per colpire i blocchi stradali degli ambientalisti, con pene fino a due anni se le azioni vengono svolte in gruppo.

Come scrive Climate Rights International, l’obiettivo di queste pene e di queste leggi è la deterrenza, scoraggiare la partecipazione pubblica alle proteste.

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