Un nuovo rapporto Onu dice quanto l’umanità sia ancora lontana dagli obiettivi di Parigi per ridurre le emissioni di anidride carbonica. Molto deve ancora essere fatto
Secondo il rapporto ufficiale delle Nazioni unite recentemente pubblicato, il pianeta si trova ad affrontare un cambiamento climatico catastrofico ed è pericolosamente fuori rotta nel raggiungere gli obiettivi di riduzione nelle emissioni di carbonio. Inoltre si è lontani dagli aumenti prospettati negli anni scorsi circa i finanziamenti per il mondo in via di sviluppo per realizzare la transizione energetica nel miglior modo possibile.
Il trattato di Parigi del 2015 aveva posto le basi per le azioni necessarie per frenare i cambiamenti climatici indotti dall’uomo, ma “ora serve molto di più su tutti i fronti” rispetto a quanto si era detto e scritto, afferma il rapporto, che sarà alla base del vertice cruciale sul clima che si terrà a Dubai alla fine dell’anno.
Le previsioni
«Il mondo non è sulla buona strada per raggiungere gli obiettivi a lungo termine dell’Accordo di Parigi»: le emissioni globali di gas serra devono raggiungere il picco entro il 2025 e poi diminuire drasticamente per poter raggiungere l’obiettivo di contenere il riscaldamento globale entro 1,5°C. Raggiungere l’azzeramento delle emissioni nette di carbonio entro il 2050 richiederà soprattutto l’eliminazione graduale dell’utilizzo di tutti i combustibili fossili, le cui emissioni non possono essere catturate o compensate.
La velocità con cui eliminare petrolio, gas e carbone dall’economia globale sarà oggetto di un acceso dibattito a dicembre durante i colloqui di due settimane della COP28 a Dubai, con la partecipazione di quasi 200 nazioni. «Dobbiamo triplicare l’energia rinnovabile entro il 2030, commercializzare altre soluzioni a zero emissioni di carbonio, come l’idrogeno, e ampliare il sistema energetico liberandolo da tutti i combustibili fossili», ha affermato il presidente della COP28 Sultan al-Jaber, capo della compagnia petrolifera nazionale degli Emirati Arabi Uniti.
Il rapporto afferma inoltre, che l’energia pulita deve essere notevolmente incrementata a livello globale rispetto a quanto fatto finora.
Le emissioni hanno già raggiunto il picco in alcuni dei paesi tecnologicamente avanzati e in alcuni paesi in via di sviluppo, ma continuano ad aumentare in molte delle più grandi economie del mondo. Ad eccezione di un calo avvenuto nel 2020, quando l’economia globale ha rallentato a causa della pandemia da Covid, le emissioni di CO2 si sono attestate a circa 40 miliardi di tonnellate all’anno dal 2019.
La Cina, gli Stati Uniti, l’Unione europea e l’India contribuiscono da soli per oltre la metà delle emissioni totali. Il bilancio evidenzia anche la necessità di aumentare rapidamente e radicalmente il sostegno finanziario ai paesi in via di sviluppo in modo che possano adattarsi ai disastri meteorologici amplificati dal clima che stanno già divorando le loro economie.
Ma centinaia di miliardi di dollari vengono ancora versati attualmente per sostenere attività inquinanti. Si afferma che circa 892 miliardi di dollari sono stati investiti ogni anno in combustibili fossili nel periodo 2019-2020, con ulteriori 450 miliardi di dollari in sussidi ai combustibili fossili.
Nel frattempo, nello stesso periodo, i finanziamenti per l’azione per il clima hanno raggiunto gli 803 miliardi di dollari, ma, secondo il rapporto, rappresentano circa un terzo di ciò che è necessario per frenare il riscaldamento in linea con gli obiettivi di Parigi.
I buchi neri sono vicini
Non li abbiamo ancora osservati, ma a soli 150 anni luce dal nostro sistema solare potrebbero esserci diversi buchi neri. Ad ipotizzarlo con dati di notevole importanza è un articolo pubblicato sulla rivista Monthly Notice della Royal Astronomical Society, secondo il quale diversi buchi neri esisterebbero nell’ammasso delle Iadi, l’”ammasso stellare aperto” più vicino al nostro sistema solare.
Se così fosse quei buchi neri sarebbero i più vicini alla Terra mai rilevati. Lo studio è il risultato di una ricerca condotta da un gruppo di scienziati guidati da Stefano Tornamienti, dell’università di Padova con la collaborazione di ricercatori dell’Università di Barcellona e della Catalogna. Sin dalla loro scoperta, i buchi neri sono stati e sono uno dei fenomeni più misteriosi e affascinanti dell’Universo e sono oggetto di numerose ricerche da parte di astrofisici di tutto il mondo.
Sono diventati ancor più oggetti di ricerca dal momento in cui, nelle 2015, gli astrofisici scoprirono l’evidenza dello scontro e della fusione di coppie di buchi neri di piccola massa. Ed è per questo che oggi si stanno cercando buchi neri ovunque nell’universo e il gruppo di astrofisici che ha pubblicato la ricerca ha focalizzato i propri studi sulle stelle delle Iadi che si trovano a 150 anni luce dalla Terra.
L’ammasso di stelle delle Iadi è definito un “ammasso stellare aperto” in quanto si tratta di numerosissime stelle che sono debolmente legate tra loro dal punto di vista gravitazionale, ma condividono alcune proprietà come le caratteristiche chimiche e l’età e ciò fa pensare che siano nate tutte più o meno nello stesso periodo.
I ricercatori in questione hanno simulato al computer la posizione, la massa, il movimento e in particolare la velocità delle stelle i cui valori, ora, sono conosciuti con estrema precisione grazie alle osservazioni realizzate dal satellite dell’Agenzia Spaziale Europea chiamato Gaia.
Spiega Torniamenti: «Le simulazioni al computer dicono in modo molto chiaro che la massa, le dimensioni e il movimento delle stelle possono essere spiegati solo se tra queste stelle vi sono dei buchi neri».
C’è pericolo per la Terra per l’esistenza di quei buchi neri così vicini a noi almeno dal punto di vista astronomico? La risposta è assolutamente no, perché stelle con massa anche 100 milioni di volte superiore a quella del nostro Sole possono dare origine a buchi neri il cui orizzonte degli eventi, la distanza dal cuore del buco nero dalla quale tutto ciò che finisce all’interno non può più uscire, ha un raggio di circa un miliardo di chilometri, davvero una distanza molto piccola rispetto a quella che vi è tra la Terra e quei buchi neri.
Il pianeta K2-18b
C’è un pianeta al di fuori del nostro sistema solare, chiamato K2-18 b, che ha caratteristiche del tutto inaspettate. Possiede infatti, un’atmosfera ricca di metano e anidride carbonica. Una scoperta realizzata dal telescopio spaziale Webb. Ma partiamo dall’inizio della storia.
Una prima idea sulle proprietà atmosferiche di questo esopianeta (così chiamato perché al di fuori del nostro sistema solare), che ruota attorno alla sua stella in una fascia dove sarebbe possibile la vita come la conosciamo noi, arrivò dalle osservazioni eseguite con il telescopio spaziale Hubble della Nasa/Esa, che stuzzicarono gli astronomi per realizzare ulteriori studi.
Nuove analisi sono state effettuate con lo strumento NIRISS, costruito dai canadesi, e con lo strumento NIRSpec, fornito dal contributo europeo, a bordo del telescopio spaziale James Webb della Nasa/Esa/Csa.
Entrambi gli strumenti osservano nel vicino infrarosso e sono in grado di analizzare la composizione chimica degli oggetti che osservano. K2-18 b è un pianeta che orbita attorno alla fredda stella nana K2-18 nella zona abitabile e si trova a 120 anni luce dalla Terra nella costellazione del Leone. Gli esopianeti come K2-18 b, che hanno dimensioni comprese tra quelle della Terra e di Nettuno, sono diversi da qualsiasi cosa presente nel nostro Sistema Solare, in quanto non ne esistono di simili. Questa mancanza di pianeti vicini analoghi significa che questi “sub-Nettuno” sono poco conosciuti e la natura delle loro atmosfere è oggetto di dibattito attivo tra gli astronomi.
L’ipotesi che il sub-Nettuno K2-18 b possa essere un esopianeta “iceano” (un termine che sta ad indicare un pianeta-oceano, ossia completamente ricoperto d’acqua) è intrigante, poiché alcuni astronomi ritengono che questi mondi siano ambienti promettenti per la ricerca di prove della vita sugli esopianeti.
L’abbondanza di metano e anidride carbonica e la carenza di ammoniaca supportano l’ipotesi che su K2-18 b potrebbe esserci un oceano sotto un’atmosfera ricca di idrogeno. Queste osservazioni iniziali di Webb hanno fornito anche la possibile rilevazione di una molecola chiamata dimetilsolfuro (DMS). Sulla Terra, questa molecola è prodotta solo dalla vita.
La maggior parte del DMS nell’atmosfera terrestre è emessa dal fitoplancton negli ambienti marini. La presenza del DMS tuttavia è meno certa e richiede un’ulteriore convalida. Ma se ci fosse potrebbe essere davvero una scoperta straordinaria.
Va comunque sottolineato che al momento anche se K2-18 b si trova nella zona abitabile ed è ora noto che ospita molecole contenenti carbonio, ciò non significa necessariamente che il pianeta possa sostenere la vita perché l’oceano potrebbe essere troppo caldo per sostenerla.
Le grandi dimensioni del pianeta – con un raggio 2,6 volte il raggio della Terra – hanno fatto ipotizzare che l’interno del pianeta probabilmente contiene un ampio mantello di ghiaccio sottoposto ad alta pressione, ricoperto da un oceano e il tutto ricoperto da un’atmosfera ricca di idrogeno.
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