- Il lungo rimpallo tra i quattro ministeri interessati al provvedimento ha partorito degli incentivi al settore auto che di ecologico ha piuttosto poco.
- L’errore più grosso è quello di incentivare l’acquisto di veicoli a benzina o diesel, che si vendono comunque.
- Gli interessi di breve termine della filiera, insomma, sono stati messi davanti a quelli della decarbonizzazione e della riconversione industriale.
Il lungo rimpallo tra i quattro ministeri interessati al provvedimento – Sviluppo economico, Economia, Transizione ecologica e Infrastrutture e mobilità sostenibili – ha partorito degli incentivi al settore auto che di ecologico hanno piuttosto poco.
Il Dpcm proposto dal ministro Giancarlo Giorgetti e firmato dal premier Mario Draghi prevede infatti incentivi a pioggia agli acquisti di auto, comprese quelle a benzina e diesel con emissioni di CO2 superiori agli obiettivi Ue, e ciclomotori e motocicli a benzina.
A differenza di quanto previsto in altri paesi europei, questi incentivi prevedono in sostanza bonus a pioggia, con l’obiettivo di accontentare la platea più ampia possibile di acquirenti e soprattutto le varie componenti della filiera dell’automotive. La filiera infatti applaude, ma guarda solo ai propri interessi immediati. Per l’ambiente e per il riassetto del settore è un’occasione sprecata.
Le misure
Il Dpcm prevede incentivi di 3.000 euro per chi acquista un’auto elettrica (più 2.000 in caso di rottamazione); 2.500 euro per le auto ibride ricaricabili (plug-in), anche qui con 2.000 addizionali per la rottamazione. Ci sono poi 2.000 euro, in caso di rottamazione, anche per l’acquisto di auto a benzina o diesel con emissioni fino a 135 grammi/km di CO2.
Per ogni categoria c’è un limite massimo di prezzo (tutti al netto dell’Iva): 35.000 euro per le vetture elettriche, 45.000 euro per quelle ibride ricaricabili, 35.000 euro per quelle a benzina o diesel.
Il pacchetto di incentivi, che prevede una spesa totale massima di 650 milioni in ciascuno degli anni dal 2022 al 2024, comprende anche fondi per l’acquisto di veicoli commerciali da parte di piccole e medie imprese e per motocicli e ciclomotori anche a benzina.
Nel dettaglio, alle auto a batteria vanno quest’anno 220 milioni, alle ibride ricaricabili 225, mentre 170 milioni “premiano” le auto a benzina e diesel; in altri termini, alle auto con motore a scoppio va quasi il doppio dei fondi rispetto alle auto elettriche.
Incentivo sbagliato nel momento sbagliato
L’errore più grosso è quello di incentivare l’acquisto di veicoli a benzina o diesel, che si vendono comunque. L’automobile non è un prodotto da supermercato, di quelli che se c’è il “tre per due” ne compro di più. Nessun programma di incentivi ha mai aumentato la domanda di auto, ma l’ha solo anticipata. Quando gli incentivi finiscono, la domanda crolla: lo si è visto benissimo in Italia negli anni dal 2010 al 2013.
La tesi secondo cui gli incentivi aiuterebbero le classi meno abbienti in un momento difficile, non regge. In primo luogo, per aiutare i ceti più svantaggiati ci sono molti modi più immediati che non un (teoricissimo) sconto sull’auto nuova.
In secondo luogo, se c’è un momento in cui è più assurdo dare incentivi a chi compra auto, è proprio questo. Da un paio d’anni, infatti, il problema del settore auto è una carenza di offerta, non di domanda: a causa della mancanza di componenti (prima i semiconduttori, ora anche componenti meno nobili prodotti in Ucraina), le case automobilistiche non riescono a produrre abbastanza.
Come insegnano a qualsiasi corso base di economia, stimolare la domanda quando quest’ultima supera già l’offerta ha l’effetto di far salire ancora di più i prezzi. Nel caso delle auto in molti si saranno già accorti che l’anno scorso i prezzi sono aumentati moltissimo, sia per le auto nuove sia per quelle usate. Il grosso degli incentivi non finirà quindi nelle tasche degli acquirenti, ma andrà ai costruttori e alla loro rete commerciale.
L’aumento dei prezzi ha spinto l’anno scorso i profitti delle case automobilistiche a livelli record: 53 miliardi di euro per i cinque maggiori gruppi europei (+284 per cento sul 2020).
La sola Stellantis ha guadagnato 13,4 miliardi di euro mentre i dipendenti di quasi tutti gli stabilimenti italiani sono rimasti per mesi in cassa integrazione.
Pompare la domanda di auto in queste condizioni non sembra un’idea particolarmente brillante. Non è un caso se nei grandi paesi europei costruttori di auto (Germania, Francia, Spagna, Gran Bretagna) non esistono attualmente incentivi alla vendita di auto che non siano “alla spina”.
Per l’Italia c’è un’ultima “aggravante”: di tutte le auto vendute nel nostro paese, solo il 15 per cento è prodotto qui. Il grosso di qualsiasi tipo di incentivi all’acquisto, quindi, finisce all’estero (questo vale sia in generale sia per le auto elettriche). Se quindi c’è un paese che dovrebbe dosare gli incentivi commerciali e pensare a misure più strategiche per rafforzare la produzione e favorire la transizione verso l’elettrico, è proprio l’Italia.
Il paradosso della CO2
Gli incentivi italiani alle auto con alte emissioni di CO2 hanno un aspetto paradossale. C’è infatti una categoria di auto – quelle che emettono fra i 128 e i 135 grammi di CO2 al chilometro – che in Francia vengono penalizzate con un malus ecologico, nella forma di una sovrattassa crescente al momento dell’acquisto.
I francesi le penalizzano perché emettono più CO2 degli attuali obiettivi Ue (ovvero il valore che i costruttori in media non devono superare se non vogliono pagare multe). Queste auto noi invece le incentiviamo, quanto meno per chi rottama l’auto vecchia; stiamo quindi di fatto incentivando un peggioramento delle emissioni di CO2 del parco di auto nuove.
Tra le “auto-paradosso” appena citate ci sono anche Suv come la Toyota Rav4 o la Jeep Compass, berline medio-grandi come la Volkswagen Passat, auto di alta gamma come la Bmw Serie 1 o la Mercedes A200. A proposito di aiuti ai meno abbienti.
Perché incentivare l’auto elettrica?
L’auto elettrica costa in media più di una a benzina perché non può ancora contare su volumi elevati di produzione e perché le batterie costano ancora care. Gli incentivi all’auto elettrica servono a compensare temporaneamente il suo maggior costo: non servono dunque a vendere più automobili, ma a spostare la domanda dei consumatori verso la tecnologia che permette il taglio più deciso e rapido delle emissioni di CO2.
La maggior parte degli esperti, e i costruttori stessi, ritengono che fra tre/cinque anni il divario di costo finale per gli automobilisti, compresi i costi di carburanti ed energia e le spese di manutenzione, dovrebbe essere eliminato.
Questo stesso argomento gioca anche contro incentivi ad ampio spettro: gli aiuti all’acquisto di vetture tradizionali avranno l’effetto di rendere meno efficaci anche gli incentivi per le auto elettriche. Se infatti do 5.000 euro a chi compra una vettura elettrica e 2.000 a che ne acquista una normale, l’effetto netto a vantaggio dell’elettrico scende a 3mila euro.
I dubbi sugli ibridi ricaricabili
Discutibili sono anche gli incentivi a favore delle auto ibride ricaricabili (plug-in), con batterie che consentono di percorrere qualche decina di chilometri a emissioni zero. La loro efficacia per la riduzione della CO2 è messa in dubbio da associazioni ambientaliste come Transport & Environment: i plug-in sono a basse emissioni solo se le batterie vengono effettivamente ricaricate, e non possono comunque esserlo sui lunghi viaggi.
All’estero gli incentivi alle ibride plug-in sono in fase di riduzione: zero in Gran Bretagna, zero in Francia dal prossimo 1° luglio. Sono invece incentivate, con formule simili a quella italiana, in Germania e in Spagna.
Criticabile, nel provvedimento italiano, è anche l’aver concesso aiuti alle ibride plug-in con un limite di prezzo più elevato rispetto alle auto elettriche: 45.000 euro (al netto dell’Iva) contro 35.000. In Spagna, giusto per fare un esempio, il limite di prezzo è lo stesso.
Dov’è la strategia?
Gli interessi di breve termine della filiera, insomma, sono stati messi davanti a quelli della decarbonizzazione e della riconversione industriale.
Per quanto riguarda l’auto, il nostro paese sconta il fatto che l’unico costruttore nazionale (Fiat, poi Fca) è stato fino a pochissimo tempo fa un feroce avversario dell’elettrificazione, accumulando un forte ritardo tecnologico e di mercato. La fusione con Stellantis ha portato in dote più fondi e più tecnologie, ma anche il nuovo amministratore delegato Carlos Tavares è quanto meno tiepido sul tema dell’elettrico.
Il ministro Giorgetti ha parlato di un «settore che attraversa una profonda sofferenza», ma la crisi è in realtà una crisi di trasformazione tecnologica ormai inarrestabile. Continuando a tenere in piedi filiere condannate, si fa del male all’ambiente e si rischia di perdere ancora terreno sul piano industriale.
L’Italia, che è ormai un peso medio nella produzione di auto, conserva posizioni rilevanti nella componentistica. Una parte, quella legata a motori e cambi, è destinata a sparire nell’arco di vent’anni e a essere sostituita da batterie e componenti elettrici come motori, centraline, componenti di pregio come i semiconduttori.
Per quanto riguarda le batterie, c’è l’impegno di Stellantis a riconvertire una delle fabbriche di motori. Ma se le vendite di auto elettriche resteranno in Italia a livelli fra i più bassi d’Europa, dove credete che andranno gli investimenti?
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