Circa 170.000 anni fa il pianeta stava entrando nella penultima glaciazione e le temperature cominciavano lentamente a irrigidirsi. Al tempo in Italia vivevano gli elefanti antichi: elefanti molto più grossi di quelli che conosciamo oggi, alti in media 4 metri o più. Un nutrito gruppo di questi elefanti venne a stabilirsi nei pressi di una sorgente termale in Maremma che determinava nell’area un clima più mite.

Proprio questa concentrazione di elefanti in una zona molto ristretta permise alle comunità di Neanderthal che vi abitavano di cacciarli, servirsi delle loro carni e carcasse e sopravvivere così a quel particolare mutamento climatico. Cambiando le proprie fonti di sostentamento, i Neanderthal si salvarono.

Sembra una favola, invece è frutto di accurate ricerche sul sito archeologico di Poggetti Vecchi, in Toscana, dove sono stati ritrovati utensili in legno eccezionalmente antichi oltre a resti importanti della fauna di allora. A partire da qui, ieri è stata inaugurata a Firenze una mostra dal titolo “170.000 anni fa a Poggetti Vecchi.  I Neanderthal e la sfida del clima”, allestita tra il Museo archeologico nazionale e il museo di Antropologia ed Etnologia in occasione dei 70 anni dalla fondazione dell’Istituto italiano di Preistoria e Protostoria, sempre con sede a Firenze, e sarà visitabile fino al 12 gennaio.

Il parere dell’esperto

Ma soprattutto si è aperto un convegno di tre giorni dedicato al tema “Rischio e risorsa. La risposta delle comunità preistoriche alle sfide ambientali”: fino a domani oltre 200 studiosi di Preistoria e Protostoria si incontreranno per interrogarsi su ciò che possono insegnarci le sfide climatiche di migliaia di anni fa.

Ne abbiamo parlato con l’archeologo Andrea Cardarelli dell’Università Sapienza di Roma: «La Preistoria e la Protostoria occupano il 99 per cento della Storia dell’umanità. Per questo riteniamo che lo studio del mondo dell’origine possa essere molto utile oggi. Un po’ come quando si va dallo psicanalista e ci si rivolge all’infanzia».

Pur non potendo contare su fonti scritte, l’archeologia ormai è in grado di fornire informazioni molto precise sul clima, sulle migrazioni o sull’alimentazione di comunità umane vissute decine o centinaia di migliaia di anni fa.

«Non lavoriamo solamente sugli scavi, ma anche su testimonianze microscopiche. Ci sono diversi modi per determinare il clima di un dato periodo storico: il carotaggio dei ghiacciai, microfaune sensibili come i molluschi, oppure i pollini che sopravvivono migliaia di anni. Nei resti umani sono inscritte anche le malattie, gli stress subiti e addirittura se un individuo ha sempre vissuto in una zona o invece è migrato».

I mutamenti climatici hanno sempre influenzato, se non proprio determinato, trasformazioni profondissime delle società umane.

«In alcuni casi – racconta ancora Cardarelli – questi mutamenti hanno prodotto forme di resilienza e ne sono scaturite innovazioni importanti. In altri le comunità umane sono riuscite ad adattarsi sfruttando i cambiamenti a proprio vantaggio. Ci sono però anche esempi drammatici di società che sono collassate, o di forti arretramenti».

Un esempio importantissimo di innovazione e resilienza si è avuto circa 12.000 anni fa, al termine dell’ultima glaciazione. Con l’aumento delle temperature il clima si ottimizzò in alcune aree, in altre le condizioni divennero più ostili.

Nel Vicino Oriente le risorse idriche si andarono a concentrare solo in alcuni punti particolari: valli, oasi, laghi. Piante e animali le seguirono a ruota, e così anche gli umani, che vivevano di caccia e raccolta. L’affollamento demografico determinò presto una conseguente scarsità di risorse, ma lentamente arrivarono le soluzioni: l’agricoltura e l’allevamento. Come osserva Cardarelli, in quel caso «un mutamento climatico potenzialmente catastrofico fu un’immensa opportunità di cambiamento che portò nel giro di alcuni secoli da un’economia di predazione a un’economia di produzione».

L’episodio a noi più vicino è però forse il più significativo. Siamo in Pianura Padana durante l’età del Bronzo, ossia fra il 2000 e il 1500 a.C, nella società delle Terramare: abitati fortificati che in quel tempo prosperarono grazie a condizioni climatiche particolarmente favorevoli. Nacquero centinaia di villaggi, cui si accompagnarono enormi interventi sull’ambiente circostante.

Servivano terreni per pascoli e agricoltura e si passò da una copertura forestale di quell’area dell’80 per cento al 20 per cento, mentre i fiumi vennero irreggimentati per favorire l’irrigazione dei campi. Il modello del disboscamento intensivo ebbe grande fortuna, attirò coloni dalle zone limitrofe, la popolazione crebbe fino a 250.000 abitanti fra l’Emilia e la Bassa padana, dove ora si trovano Cremona, Mantova e Verona. Per cinque secoli tutto funzionò al meglio. Finché sopraggiunsero un periodo di siccità, dovuto in quel caso a ragioni “naturali”, e un inaridimento dei terreni causato invece dallo sfruttamento del suolo.

Le cause

I due fattori assieme (anche se in quel caso le cause naturali ebbero ben più peso) provocarono un’enorme crisi produttiva, accompagnata da un forte aumento della conflittualità e infine dal collasso definitivo della società delle Terramare. Quella zona della Pianura padana rimase quasi spopolata per secoli.

Se si riprese, molto tempo dopo, fu grazie alle comunità montane. Nelle zone prealpine e appenniniche, infatti, la concentrazione demografica era minore e, soprattutto, non si era mai formata, come a valle, un’economia troppo specializzata e dipendente da un solo fattore, in quel caso la distribuzione dell’acqua. Zone apparentemente marginali divennero fondamentali per il successivo sviluppo delle prime città etrusche, picene e venete.

«Quello che emerge – racconta ancora Cardarelli – è che a fronte di cambiamenti climatici importanti, alcune civiltà collassano e altre no. A sopravvivere sono quelle che riescono a modificare il proprio modello economico. Oggi lo vediamo su scala planetaria. Se un modello basato su sfruttamento ambientale, combustibili fossili e profitto ci ha portati fin qui, diventa necessario trovare un modo di produzione alternativo. Ci vuole una risposta globale che sappia tener conto degli specifici ecosistemi, ed è un lavoro che spetta alla politica e agli economisti. L’umanità è sopravvissuta fino ad ora, anche sviluppando forme di resilienza straordinarie».

Le differenze fra allora e oggi sono significative. In quel 99 per cento di storia umana, i cambiamenti climatici non erano neanche lontanamente provocati dall’azione umana. Al massimo una comunità poteva incidere sulle condizioni del suolo di una determinata zona, non certo modificare le temperature e provocare eventi estremi.

Inoltre avvenivano molto più lentamente, per quanto certe variazioni potessero essere percepibili nell’arco di una vita umana. D’altro canto, oggi abbiamo capacità predittive che allora sarebbero state impensabili e che sarebbero e anzi sono di enorme aiuto.

Eppure la conoscenza e l’aderenza agli ecosistemi di migliaia di anni fa ha permesso in molti casi alle comunità preistoriche e protostoriche di “ascoltare” i cambiamenti in atto e assecondarli, anche a costo – nel bene e nel male – di cambiare a propria volta. Non attraverso piccoli cambiamenti, ma accettando di mettere in discussione del tutto il sistema economico vigente.

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