Il nostro è un paese a crescita zero, in cui però crescono le distese di asfalto. Per parcheggi, poli logistici, centri commerciali che oggi sono tra le concause delle alluvioni. Ma fermare questi processi, intervenendo sul cortocircuito economico e ambientale che ne è alla base, è possibile
Il silenzio del governo sui risultati dell’ultimo rapporto sul consumo di suolo in Italia dovrebbe far riflettere. Innanzi tutto perché le elaborazioni non provengono dai vituperati gruppi ambientalisti ma dall’Ente pubblico di ricerca e protezione del ministero dell’Ambiente, e poi per i numeri impressionanti che vengono messi in evidenza di terreni trasformati dal cemento e che non posso essere derubricati alle solite statistiche annuali, tipo l’andamento della produzione di arance o rubinetti.
Per la semplice ragione che sono le norme urbanistiche e le politiche pubbliche a orientare, favorire od ostacolare i processi che interessano i suoli. E sono dunque queste a produrre una delle contraddizioni più incredibili di un paese a crescita quasi zero da anni, dove la popolazione è ferma e invecchia, ma che continua a viaggiare a una media di oltre 70 chilometri quadrati all’anno, che è superiore a quella del periodo 2012-2023.
Oltretutto, la situazione si sta aggravando perché l’impermeabilizzazione dei suoli è una delle concause degli impatti così rilevanti e costosi in termini di vite umane e economici di alluvioni e ondate di calore. Basti dire che la sola perdita della capacità dei terreni di assorbire e trattenere l’acqua e regolare il ciclo idrologico è stimata in oltre 400 milioni di euro all’anno.
Cosa si costruisce
Nel rapporto di Ispra due dati saltano agli occhi per come mettono in evidenza il cortocircuito di questi processi rispetto alla situazione del paese, ai problemi della sua economia e di disagio delle famiglie. Il primo riguarda cosa sono diventati oggi queste aree che fino a poco tempo fa erano aree coltivate, pascoli, boschi.
Qui sono i dati delle grandi città quelli da guardare con attenzione. A Roma, ad esempio, ci si potrebbe immaginare che sono diventati palazzi, vista la grande fame di alloggi della città. I dati invece mettono in evidenza come in realtà si tratti in larga maggioranza di parcheggi, strade e svincoli, piazzali asfaltati. Gli edifici occupano la parte più piccola, quasi isolati dentro queste immense distese di asfalto, anonime e incandescenti nei mesi estivi. E la ragione sta in assurde norme urbanistiche che obbligano a progettare in questo modo i servizi oltre che in una ridondante progettazione di svincoli, strade e rotatorie.
Ma tutte cose si possono cambiare. Se una norma è stupida perché produce questi effetti non esiste alcuna ragione per tenerla in vita. Gli stessi costruttori oggi chiedono di spostare le priorità verso la rigenerazione, per cui il governo su questo versante non troverebbe opposizione. Ma soprattutto queste analisi ci dicono che le città possono dare risposta alla grande domanda di case a prezzi accessibili e di farlo a consumo di suolo zero, ripensando e dando un senso a tanti orrendi spazi costruiti negli ultimi decenni.
In sostanza, facendo incontrare domanda e offerta, riempire di persone tante case oggi vuote, realizzare edifici e spazi verdi sopra lastre di asfalto magari collegandoli con servizi di trasporto pubblico efficienti e stralciando previsioni edificatorie ancora esistenti in aree agricole.
Una scelta di questo tipo oggi non è radicale, ma semplice buon senso. Perfettamente in linea con le proposte presentate nelle scorse settimane da Confindustria per case per i lavoratori e da Ance per realizzare alloggi a prezzi accessibili.
Il peso di logistica
Il secondo dato rilevante del Rapporto, ma che in fondo non stupisce, è il peso che hanno la logistica, la grande distribuzione, le strutture per l’e-commerce, gli spazi e le aree asfaltate per attività produttive. Qui c’è un paradosso che andrebbe analizzato con attenzione, fatto di due processi che non si incontrano. Ossia da un lato la progressiva deindustrializzazione del paese con la dismissione di impianti e capannoni e dall’altro la costruzione di nuovi enormi piazzali e altri capannoni per camion, auto, container.
La ragione è che oggi in Italia è più complicato, lento e costoso, intervenire per ripensare quelle aree abbandonate. E quando arrivano gli emissari di Amazon o di altri attori della logistica nei comuni, di fronte alla promessa di oneri urbanistici, compensazioni e assunzioni il confronto parte già in discesa e si riduce l’attenzione rispetto all’occupazione di aree agricole.
Ma possibile che non si possa almeno provare a orientare, spostare e migliorare questi investimenti verso aree meno delicate e con soluzioni adeguate al nuovo scenario climatico? Come si fa da tempo negli altri paesi, dove ci si siede al tavolo delle trattive con l’obiettivo di fissare dei paletti e dei criteri, ad esempio, per localizzarli in prossimità di infrastrutture di scambio modale, stazioni e viadotti, piastre logistiche e distretti. Poi premiando chi recupera terreni già impermeabilizzati, chi riduce al massimo le superfici asfaltate e pianta alberi, chi garantisce l’infiltrazione dell’acqua nelle falde.
Le scelte necessarie
No. Non è accettabile che si possa mettere la testa sotto terra di fronte a processi che hanno questi impatti ambientali, climatici, economici. Ma dopo i fallimenti di questi anni da dove si dovrebbe partire? Una prima scelta dovrebbe essere quella di mettere da parte i sogni di grandi riforme, di riscrittura completa del quadro normativo, miseramente fallite nelle scorse legislature quando pure una maggioranza si poteva trovare in parlamento.
E poi rinunciando ad affrontare il consumo di suolo partendo da obiettivi quantitativi, con le infinite discussioni sui numeri invalicabili da fissare a livello nazionale e poi locale.
Piuttosto conviene approfondire il perché questi processi continuano senza in alcun modo risolvere i problemi di famiglie e imprese spaventate dal futuro. Anche perché il governo è in un vicolo cieco, senza idee o ricette credibili. Le semplificazioni di Salvini non stanno producendo alcun risultato, si prevede un crollo degli interventi di riqualificazione energetica per il taglio delle detrazioni fiscali e le politiche per la casa sono ferme al palo.
Oggi c’è un grande spazio per iniziative politiche in cui possano incontrarsi una visione del paese e del suo futuro con ricette locali capaci di tenere assieme le sfide della rigenerazione e della tutela. E poi chissà fino a quando il governo consentirà ad Ispra di raccontare quanto sta avvenendo sul consumo di suolo in Italia.
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