Proprio mentre l’Arabia Saudita ha finito di celebrare l’ultimo evento sportivo di alto profilo (il surreale Six Kings Tennis Slam di tennis vinto da Jannik Sinner), dal mondo del calcio arriva una presa di posizione inedita e durissima contro i legami tra la sua massima organizzazione e il regime saudita.

Come può la Fifa avere Saudi Aramco, la compagnia petrolifera di stato saudita, come sponsor principale delle prossime Coppe del mondo? La protesta pubblica arriva dal calcio femminile: non è la prima volta che le calciatrici mostrano più consapevolezza e coraggio della controparte maschile, questa lettera però rappresenta una novità dal punto di vista politico e mediatico, perché in calce c’è l’élite del gioco.

La lettera

Elena Linari, capitana della nazionale azzurra, è tra le firmatarie (foto EPA)

Si tratta di 106 giocatrici professioniste di altissimo livello, da 24 paesi, tra cui le capitane della nazionale canadese (Jessie Fleming) e di quella italiana (Elena Linari, della Roma), le ex capitane di quella degli Stati Uniti (Becky Sauerbrunn) e dell’Afghanistan (Khalida Popal). Secondo loro è diventato insostenibile che la Fifa porti avanzi iniziative a favore dell’inclusività, del rispetto dei diritti, della lotta alla crisi climatica, e poi intrattenga legami di questo tipo con la monarchia saudita.

Lo scorso aprile la Fifa aveva annunciato che Saudi Aramco (controllata al 98,5 per cento dall’Arabia Saudita) sarebbe diventata il main sponsor, un accordo da oltre 350 milioni di dollari che copre la Coppa del mondo maschile del 2026 e quella femminile del 2027. Nel comunicato ufficiale si leggeva come quello tra Fifa e Saudi Aramco fosse «un impegno condiviso per l’innovazione e la creazione di iniziative sociali di grande impatto». Non erano le prime né saranno le ultime impronte saudite sullo sport globale, un legame che culminerà con l’organizzazione del mondiale maschile tra dieci anni.

Ambiente e diritti

Le proteste contro questa appropriazione saudita dello sport globale finora sono state timide, episodiche, e isolate, fino al fronte delle oltre cento calciatrici, che nella lettera usano parole inequivocabili, fanno nomi e cognomi, raccontano storie di oppressione e si chiedono come tutto questo sia compatibile con l’immagine di un calcio inclusivo, aperto e consapevole che la Fifa prova a portare avanti.

Non era mai successo che un fronte di atleti usasse parole del genere contro lo sportwashing, cioè l’utilizzo della loro disciplina per ripulire la reputazione di un paese, di un’azienda o di entrambi, come in questo caso. Scrivono nella lettera: «Le autorità saudite stanno spendendo miliardi di dollari in sponsorizzazioni sportive, per distrarre dalla loro brutale reputazione saudita sui diritti umani, ma il loro trattamento delle donne si commenta da solo».

Nel dubbio, per i più distratti, le firmatarie ricordano alcune delle storie più emblematiche: la ricercatrice Salma al-Shehab, condannata a 27 anni di carcere per retweet sulla libertà di espressione, Manahel al-Otaibi condannata a 11 anni di carcere per aver promosso la libertà femminile sui social, Manal al-Gafiri, condannata a 18 anni mentre era ancora minorenne. «Immaginate come si possa chiedere alle giocatrici Lgbtq+, alcune delle quali sono delle eroine di questo sport, di promuovere Saudi Aramco alla Coppa del Mondo del 2027 l’azienda di stato di un regime che criminalizza le loro relazioni sentimentali e i valori per cui si battono?».

Non c’è solo il rispetto dei diritti umani: Saudi Aramco è la più grande azienda oil and gas di stato al mondo, «una di quelle più responsabili di bruciare il futuro del calcio, che in questo momento, soprattutto ai livelli amatoriali, è messo a rischio da ondate di calore, incendi, alluvioni. Tutte stiamo pagando le conseguenze dei profitti dell’Arabia Saudita, ma la Fifa ci chiede lo stesso di essere la loro cheerleader».

La questione della governance

Le calciatrici, infine, sollevano un problema di governance del calcio: le decisioni della Fifa riflettono scarsa attenzione alla condizione e ai diritti delle donne perché le donne sono poco rappresentate nella Fifa, pur essendo una parte sempre più grande del movimento. Nel Consiglio direttivo siedono 37 persone, soltanto 8 (il 22 per cento) sono donne.

«Queste decisioni sono prese da uomini privilegiati che possono sentirsi al sicuro dal trattamento del regime saudita nei confronti delle donne, delle persone Lgbtq+, dei migranti, delle minoranze». Sofie Junge Pedersen, centrocampista danese dell’Inter, è stata una delle tre calciatrici che hanno fatto partire l’iniziativa e hanno coinvolto le colleghe (le altre due sono l’olandese delle Rangers Tessel Middag e la neozelandese delle Hearts Katie Rood).

Spiega Pedersen: «Infantino alla scorsa Coppa del Mondo ci aveva detto: avete il potere di convincere noi uomini di quello che dobbiamo fare e di quello che non dobbiamo fare. Beh, eccoci qui. Non riesco a credere che la Fifa possa avere chiuso un occhio per soldi sulle donne in carcere in Arabia Saudita. Io non giocherò in silenzio con il logo Saudi Aramco sulla pancia alla prossima Coppa del mondo, cioè  uno dei principali inquinatori del mondo, in mano a uno dei paesi che più violano i diritti umani. Non voglio essere parte della distrazione da tutto questo».

La lettera chiede alla Fifa di riconsiderare la sponsorizzazione, e di cambiare le regole per dare un accesso più rappresentativo alle donne negli organi del calcio. «Questa sponsorizzazione è il dito medio agitato contro le donne del calcio». Le calciatrici hanno dimostrato di voler reagire. Una domanda interessante da farsi, stamattina, è se ci saranno uomini nel mondo del calcio che decideranno di intervenire e scendere in campo per questa protesta. Da oggi niente sarà più lo stesso.

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