- L’economia del nichel è divisa tra vecchia e nuova economia: oggi il 70 per cento delle risorsa finisce in acciaio inossidabile e solo il 5 per cento finisce nelle batterie elettriche. Il problema è che per tenere il passo della transizione la quota deve salire al 59 per cento.
- Il nichel è il metallo d’elezione per ridurre la nostra dipendenza da cobalto, tossico socialmente ed ecologicamente. Ma anche l’estrazione di nichel, per tenere il ritmo della richiesta di mercato, rischia di diventare ambientalmente molto problematica.
- Una delle prospettive per aumentarne la produzione è il deep sea mining, l’esplorazione mineraria di profondità dell’oceano Pacifico, dove i fondali sono ricchissimi di metalli critici. I rischi ecologici dell’impresa però andrebbero oltre qualsiasi principio di precauzione.
Il nichel si trova al centro della tavola periodica e forse non casualmente è l’elemento di confine, quello sul quale più chiaramente si vede la guerra tra il vecchio e il nuovo mondo. Metalli come litio e cobalto sono usati in settori relativamente nuovi, materiali di elezione della transizione energetica o delle tecnologie più avanzate.
Quando invece devono comprare il nichel, i produttori di batterie elettriche competono per la risorsa con colossi della più dura industria novecentesca, in un mercato da 20 miliardi di dollari all’anno: oggi il 70 per cento del nichel estratto nel mondo finisce nell’acciaio inossidabile e solo il 5 per cento nelle batterie di auto elettriche.
Per tenere il passo della transizione, però, questa quota dovrà crescere dal 5 per cento fino al 59 per cento del totale, contando anche gli accumuli per rinnovabili. Nell’immediato questo stallo ha fatto crescere la domanda e quindi i prezzi: più 85 per cento nel 2021. Nel futuro invece significa una sola cosa: servono più miniere, il nichel che stiamo estraendo non basterà, bisogna scavare e raffinare ovunque possibile, fino a migliaia di metri di profondità nell’oceano Pacifico.
Lo ha detto anche Elon Musk nel 2020, rivolto all’industria mineraria: «Per favore, trovatemi più nichel». E quindi il metallo col numero atomico 28, che i minatori chiamavano rame del diavolo, è anche una parabola sui limiti del consumo di risorse non rinnovabili in un mondo rinnovabile. E pensare che il nichel non è una risorsa scarsa di per sé: è il quinto elemento più abbondante sulla Terra.
L’antidoto al veleno
Lo stato dell’arte delle batterie più performanti, quelle a ioni di litio, prevede quattro elementi: litio, manganese, nichel e cobalto. Quest’ultimo è un veleno dal quale l’energia pulita deve disintossicarsi per rimanere pulita, a causa della sua insostenibile filiera fatta di schiavitù, neocolonialismo e lavoro minorile.
La via maestra per ridurre il cobalto è aumentare il dosaggio di nichel, che quindi negli ultimi anni è stato trattato come l’antidoto al veleno. Resiste alla corrosione e alle alte temperature, si lega facilmente, è duttile, malleabile, stabile, insomma: è meravigliosamente adatto.
Il problema è che non abbiamo abbastanza nichel di qualità per fare questo cambio. La sua domanda crescerà di 14 volte da qui al 2030: più di grafite, litio, cobalto, ferro e manganese. È diventato così caro che non è nemmeno più conveniente farci le monete.
Lo ha detto sempre Elon Musk, fondatore di Tesla, la persona alla quale guardare per capire dove va la ricerca di metalli critici: «Il nichel è la nostra principale preoccupazione per la produzione di batterie a ioni di litio». Le mosse di Tesla negli ultimi anni sono indicative. Ha investito in un progetto minerario in Tanzania da 1,3 miliardi di dollari, uno in Nuova Caledonia, territorio d’oltremare francese dove si stima ci sia un potenziale quarto delle riserve globali ma dove non è ancora partita un’estrazione redditizia per le difficoltà tecniche e industriali, e uno negli Stati Uniti, in Minnesota, ottimo esempio della nuova vocazione mineraria degli americani, dopo decenni di disinvestimento. Per la sua posizione di vantaggio tecnologico sulla concorrenza, la fame di nichel di Tesla di oggi anticipa quella di tutti gli altri produttori domani.
Lezioni di metallurgia
Sono 25 i paesi dove oggi si estrae nichel a livelli industriali. I produttori dominanti sono l’Indonesia (22,4 per cento), l’Australia (21,3 per cento) e il Brasile (17 per cento’). Ci sono estrazioni rilevanti poi a Cuba e nelle Filippine. È una geografia delle risorse insolita e diventa ancora più complessa se consideriamo che ci sono due tipi di nichel in natura.
Per capire serve una brevissima lezione di metallurgia. Ci facciamo aiutare da Giovanni Brussato, ingegnere minerario e autore del libro Energia verde? prepariamoci a scavare (Edizioni Montaonda). «Il concetto di partenza è che il nichel deve essere estremamente puro per farci le batterie. E in natura effettivamente lo troviamo puro, è il cosiddetto nichel di classe 1, il più pregiato, quello che si ricava da depositi di solfuri ed è relativamente semplice da raffinare».
Questo nichel puro però è solo il 30 per cento del totale e già nel 2025 la domanda potrebbe superare l’offerta. E allora ci tocca guardare al rimanente 70 per cento. «Il nichel di classe due si ottiene dalle lateriti, rocce che devono essere completamente fuse per permettere l’estrazione. È una tecnica che chiede enormi risorse ed economie di scala». Per questo motivo un’oscura notizia di settore dell’anno scorso potrebbe aver cambiato il corso della transizione energetica globale
Un cambio radicale
Tsingshan Holding Group è uno dei più grandi produttori di acciaio inossidabile al mondo, nel 2021 ha annunciato che aprirà a Guangdong una delle tante fabbriche di batterie a ioni di litio della Cina, ma la vera notizia non era questa.
La scossa è che Tsingshan ha trovato il modo di convertire il nichel di seconda classe – più diffuso, duro e difficile da estrarre – in nichel di prima classe – più raro, puro, pregiato e perfetto per le batterie, aprendo uno scenario di improvvisa abbondanza (infatti i prezzi sono crollati).
È una notizia che cambia la partita e triplica la disponibilità potenziale di un metallo critico. Il problema è che finora ogni processo di lavorazione del nichel più diffuso, compreso il nuovo metodo di Tsingshan, ha avuto un impatto ambientale enorme: è l’ennesimo caso della coperta che da un lato è sempre troppo corta, che sia il consumo di acqua del litio, la radioattività delle terre rare o il lavoro minorile del cobalto.
Nel caso di questo innovativo processo per avere molto più nichel a disposizione il primo problema sono le emissioni di CO2 (cioè il motivo stesso per cui facciamo la transizione energetica). Il processo di lavorazione ideato da Tsingshan triplica le emissioni della produzione di nichel, perché richiede grandi quantitativi di energia in paesi (come l’Indonesia) dove viene ancora quasi tutta dal carbone.
Le emissioni possono arrivare a 90 tonnellate di CO2 equivalente per tonnellata di nichel, contro 10 tonnellate di CO2 per tonnellata di metallo delle tecniche di lavorazione del nichel puro. «Ma c’è un altro problema: per separare il metallo dalla roccia dobbiamo usare degli acidi, il risultato sono fanghi tossici pieni di metalli pesanti che in molti paesi si sversano direttamente in mare o vengono confinati in dighe sterili che a volte cedono, provocando disastri ecologici».
Nel 2019 un operatore minerario ha per sbaglio riversato in mare 200mila litri di fanghi tossici da nichel nella provincia di Madang, in Papua Nuova Guinea. L’acqua è diventata rossa e i moli si sono arrugginiti. Insomma, mentre proviamo a sostituire il cobalto col nichel, ci accorgiamo che il nichel stesso è «estremamente problematico», come dice Brussato. Il futuro a medio termine è il riciclo (ma secondo un report della Commissione europea al 2030 solo il 10 per cento del nichel riuscirà a essere da economia circolare), quello a lungo termine è la ricerca tecnologica, che potrebbe darci batterie più sostenibili, come quelle a ioni di sodio.
Minatori in fondo al mare
L’ultimo pezzo di questo viaggio nella geografia del nichel ci porta in uno dei punti più remoti della Terra: si chiama Clarion-Clipperton Zone, è un’area di fondale marino sperduta, in un luogo che sarebbe perfetto per una stagione di Lost, tra gli Stati Uniti e l’Australia. Il posto abitato più vicino è Nauru, un microstato da 10mila abitanti in Oceania.
Qui, a profondità tra i 4mila e i 5mila metri, ci sono le miniere inesplorate più grandi, ambite e inaccessibili del mondo. Sul fondale marino della Clarion-Clipperton Zone ci sono migliaia di miliardi di noduli polimetallici, gemme sottomarine fatte di nichel, cobalto, manganese, ferro, rame. Tecnologicamente, il processo è facile da spiegare e molto difficile da attuare.
Un veicolo automatico comandato a distanza viaggia verso il fondo del mare, poi come un aspirapolvere cattura le gemme e con un lunghissimo tubo succhia tutto fino alla superficie. Il potenziale economico è immenso e per ora siamo ancora nella fase dell’esplorazione, ma pochi mesi fa 600 scienziati da 44 paesi hanno firmato una petizione per mettere al bando il deep sea mining prima ancora che diventi una pratica.
L’esplorazione più avanzata, quella di un veicolo chiamato Patania II, è stata seguita dalle proteste della nave di Greenpeace Rainbow Warrior III. «I prezzi non giustificano ancora la convenienza del deep sea mining, che è costosissimo, e la tecnologia non è ancora arrivata a renderlo più praticabile», conclude Brussato. Il punto è che entrambi gli scenari non sono impossibili. La fame di nichel potrebbe spingere i prezzi potrebbero salire ancora, o potremmo scoprire un metodo più economico per scavare le profondità oceaniche. «In quel caso rischiamo di toccare equilibri dei quali non sappiamo letteralmente nulla».
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