Le sonde Voyager lanciate circa 45 anni fa verso i pianeti esterni del sistema solare, oggi sembrano essere al di là dei confini di quest’ultimo. Sembrano, perché non è ancora chiaro se lo siano realmente o se invece si trovino ancora nella fascia interessata sia dalle radiazioni solari che da quelle interstellari. Ralph McNutt, a capo dello Space Department al Johns Hopkins University Applied Physics Laboratory (Apl) è stato tra coloro che hanno lavorato alla messa a punto degli strumenti presenti a bordo delle sonde e in particolare a un rivelatore del plasma (gas ionizzato).

Questo veterano delle Voyager, che sono risultate essere uno dei più grandi trionfi scientifici della Nasa, vuole portare un proprio progetto ben al di là di dove sono arrivate le sonde. McNutt e colleghi dell’Apl hanno elaborato un concetto per costruire la Interstellar Probe (Ip), una missione da 3,1 miliardi di dollari per approfondire le scoperte delle Voyager e andare oltre. I dati delle due sonde sono così difficili da interpretare che c’è ancora una diatriba tra chi sostiene che oggi siano già nello spazio interstellare e chi sostiene che non siano ancora arrivate in quel “nuovo mondo”. Forse perché i confini dell’eliosfera si estendono più lontano di quanto si pensi generalmente e sono estremamente complessi.

«Per sollevare il velo di mistero non basta guardare al di fuori del sistema solare dalla Terra, ma per vedere che aspetto ha il nostro acquario è necessario andare là fuori a guardare dentro», dice McNutt, che ha bisogno di convincere chi potrà dare assenso a una simile missione. Il suo gruppo di lavoro ha realizzato uno studio concettuale molto approfondito sulla Ip che è stato sottoposto a varie accademie nazionali di scienze, ingegneria e medicina, le quali stabiliranno le priorità delle ricerche scientifiche dei prossimi 10 anni. Verranno annunciate nel 2024, e McNutt spera di vedere nella lista anche la sua Ip. Sarebbe importante per la Ip perché sarebbe garantito il supporto della Nasa, che potrebbe costruire una sonda la quale potrebbe decollare nel 2036.

Ciò le consentirebbe di raggiungere Giove in breve tempo e, sfruttando la sua potente gravità, farsi lanciare verso lo spazio interstellare. Vi arriverebbe circa 16 anni dopo, un tempo lungo, ma la metà rispetto a quello impiegato dalla Voyager.

Anche gli scienziati cinesi stanno progettando una missione simile: la Interstellar Express (Ie), potrebbe essere lanciata più o meno nello stesso periodo. Il problema principale per McNutt e i suoi colleghi è che devono convincere un gran numero di persone a dare l’assenso a una missione della durata di almeno 50 anni. Tra la costruzione e il viaggio richiederebbe tre o più generazioni di scienziati. 

«Le persone sono troppo spaventate dal fatto che un grande progetto come questo risucchi tutti i finanziamenti destinati alla scienza», afferma Pontus Brandt, fisico spaziale dell’Apl, scienziato capo dello studio sul concetto di missione Ip. Ma Merav Opher, un astrofisico della Boston University, dice che ampliare i confini dell’esplorazione spaziale è diventato molto importante: «È miope continuare a finanziare solo quello che avviene nel sistema solare».

Termination shock

McNutt è certo che una simile missione sia indispensabile, se si pensa a cosa raccolsero le sonde Voyager quando iniziarono a oltrepassare il confine estremo del nostro sistema planetario. Una grande sorpresa arrivò nel 2007, quando la Voyager 2, immergendosi sotto il piano dell’eclittica – l’orbita sulla quale orbitano i pianeti – attraversò il termination shock, lo spazio dove il vento solare inizia a vacillare nel momento in cui viene colpito dal gas interstellare. 

La Voyager 1 aveva attraversato lo “shock” tre anni prima, a circa 94 unità astronomiche dalla Terra. Ma il suo rivelatore al plasma si era guastato vicino a Saturno nel 1980, non riuscendo così a misurare il rallentamento del vento solare. I modelli avevano previsto che il vento avrebbe decelerato da 1,2 milioni di chilometri orari a circa 300mila chilometri orari. Ma quando Voyager 2 attraversò lo shock registrò una velocità del vento di 540mila chilometri orari. Inoltre, la Voyager 2 attraversò lo “shock” a ben 10 UA più vicino alla Terra rispetto alla Voyager 1.

Perché questa asimmetria nel sistema solare? I fisici spaziali in seguito scoprirono che i modelli avevano in gran parte ignorato i campi magnetici interstellari, che comprimono l’eliosfera al di sotto dell’eclittica: presumevano anche che il vento solare fosse una burrasca costante, invece, fluttua con il ciclo di 11 anni, motivo per cui le due sonde hanno raggiunto lo shock a distanze diverse.

Dopo aver attraversato quel primo confine tra sistema solare e spazio interstellare, le sonde Voyager sono entrate nell’elioguaina, la regione in cui il vento solare diminuisce sempre più, appassendo sotto una raffica di gas e polvere interstellare mentre il sistema solare solca lo spazio. Si pensava che l’elioguaina fosse la sottile “pelle” dell’eliosfera. Così non è, perché il vento solare continua a correre prima di fermarsi nell’eliopausa, dove il plasma caldo e sottile della nostra eliosfera lascia il posto definitivamente al plasma freddo e denso dello spazio interstellare. Senza un rilevatore al plasma funzionante, la Voyager 1 ha avuto difficoltà a confermare quell’immagine. 

L’eliopausa

All’inizio del 2013, gli scienziati della missione, vagliando i dati di altri rivelatori, hanno dichiarato che la sonda aveva effettivamente lasciato l’eliosfera mesi prima, il 25 agosto 2012, a circa 122 Ua dalla Terra. Un precipitoso calo del vento solare a energia più elevata e un concomitante aumento dei raggi cosmici lo hanno confermato. Sei anni dopo, Voyager 2 ha colpito l’eliopausa quasi alla stessa distanza dal Sole, in una fase diversa del ciclo solare, suggerendo che, a differenza del termination shock, l’eliopausa è insensibile alla variazione solare. Altri dati però, non tornavano. 

Il campo magnetico del Sole, incorporato nel vento solare, è attorcigliato in una spirale dalla rotazione del Sole. Attraversando l’eliopausa, la Voyager 1 avrebbe dovuto osservare un cambiamento nella direzione del campo magnetico, poiché il campo di torsione del vento solare lascia il posto a campi interstellari diversamente orientati. «Ma ciò non succedeva», dice Brandt, «e tutte le persone che conoscono la teoria di base, erano perplesse». È per questo che Fisk ipotizza che tutto ciò sia un segno che le sonde non hanno ancora raggiunto realmente lo spazio interstellare, sostenendo con il collega George Gloeckler –  su The Astrophysical Journal – che le Voyager 1 e 2 siano ancora nell’elioguaina.

Cosa c’è oltre

«Non importa chi ha ragione – dice McNutt – quel che è importante è risolvere questo problema, e capire fin dove arriva il nostro sistema solare e scoprire cosa c’è oltre». In base allo studio fatto dal ricercatore e dal suo gruppo la sonda che dovrebbe lasciare il sistema solare potrebbe essere lanciata con un grande razzo oggi a disposizione, dall’Sls della NASA allo Starship di SpaceX o al New Glenn di BlueOrigin.

La missione cinese Interstellar Express prevede invece l’invio di due sonde in direzioni opposte: una verso il “naso” dell’eliosfera e l’altra verso la sua coda. Le osservazioni di entrambe le missioni «ci forniranno un quadro più completo dell’eliosfera», afferma Wang Chi, direttore generale del National Space Science Center dell’Accademia cinese delle scienze. Il suo team nel 2014 aveva immaginato una terza sonda da lanciare su un percorso perpendicolare al piano dell’eclittica, usando la propulsione nucleare per sfuggire all’eliosfera. Ma le sfide tecniche sono scoraggianti e quella sonda per ora è ibernata. 

Il mistero delle nubi interstellari

Per McNutt «più siamo, meglio è». Stando a Opher quelle missioni sarebbero anche un «punto di svolta» per meglio comprendere il mistero delle nubi interstellari composte da polveri e gas attraverso le quali il Sistema solare vi entra di tanto in tanto durante la sua orbita attorno al centro galattico, che dura circa 230 milioni di anni. Come oasi di un deserto quelle nubi sono molto probabilmente i resti di vivai stellari che danno origine a nuove stelle e sistemi planetari. Oggi sappiamo più o meno dove sono ubicate alcune nubi di tal genere, ma conosciamo davvero poco le loro caratteristiche.

Tanto per iniziare la Ip potrebbe campionare la Local Interstellar Cloud, la nube dove si trova attualmente il sistema solare da circa 60mila anni. E da fuori il sistema solare la sonda potrebbe studiare meglio la vicina “nube G” verso la quale ci stiamo dirigendo e al cui interno finiremo tra circa 2mila anni. Al momento non sappiamo cosa accadrà ed è meglio scoprirlo perché più una nube è densa e fredda, maggiore sarà la pressione sulla eliosfera del nostro Sole e se le radiazioni interstellari dovessero arrivare in maggior quantità sulla Terra potrebbero esserci conseguenze alla vita del pianeta.

È possibile che qualcosa del genere sia avvenuto circa 2-3 milioni di anni fa. Ce lo raccontano campioni di crosta oceanica al cui interno si è scoperto un’anomala concentrazione di ferro-60, che non si trova naturalmente sul nostro pianeta. E ciò potrebbe essere stato portato o da materiale fuoriuscito dall’esplosione di una supernova, ma della quale non abbiamo tracce, oppure da materiale presente in una nube interstellare attraverso la quale passò la Terra a quel tempo. Va anche detto che McNutt non nasconde di pensare in grande ipotizzando che alla fine delle ricerche la sonda possa essere mandata verso un’altra stella e, chissà, cadere nelle mani di alieni intelligenti.

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