A oggi sono noti più di 5.000 esopianeti, ossia pianeti al di fuori del nostro sistema solare che orbitano attorno ad altre stelle. Mentre lo sforzo per scoprire nuovi mondi continua, stiamo imparando sempre di più sugli esopianeti che abbiamo già rilevato: le loro dimensioni, di cosa sono fatti e se hanno un’atmosfera.

Un gruppo di astronomi ha recentemente fornito prove di un’atmosfera ricca di zolfo su un mondo che è 1,5 volte più grande della Terra e situato a 35 anni luce di distanza. Se confermato, sarebbe il più piccolo esopianeta conosciuto con un’atmosfera. La potenziale presenza di gas diossido di zolfo (SO₂) e acido solfidrico (H₂S) in questa atmosfera suggerisce la presenza di una superficie fusa o con un gran numero di attività vulcaniche.

La categorie dei pianeti

Nel nostro sistema solare, abbiamo due distinte categorie di pianeti: i piccoli pianeti rocciosi, tra cui Terra e Marte, e i giganti gassosi come Giove e Saturno. Tuttavia, gli esopianeti coprono un ampio spettro di dimensioni. Il nostro sistema solare non ha un pianeta le cui dimensioni rientrino nell’intervallo tra Terra e Nettuno, ma nel gran numero di pianeti scoperti si scopre che è il tipo di pianeta più comune che abbiamo visto attorno ad altre stelle nella nostra galassia.

Quelli più vicini alle dimensioni di Nettuno sono chiamati sub-Nettuno e quelli più vicini alle dimensioni della Terra sono chiamati super-Terre. L 98-59d, il “pianeta vulcanico”, rientra nella categoria della super-Terra, leggermente più grande e pesante del nostro pianeta. La composizione delle atmosfere di questi pianeti è ancora una questione aperta, che stiamo solo iniziando a esplorare con il James Webb Space Telescope (JWST), lanciato nel 2021. L 98-59d, comunque, è stato scoperto nel 2019 con il telescopio spaziale Tess della NASA.

La maggior parte degli esopianeti, tra cui L 98-59d, sono stati rilevati utilizzando il metodo del transito. È il metodo che misura i piccoli cali nella luce delle stelle quando il pianeta passa davanti alla stella rispetto alla nostra posizione. Questo calo è più pronunciato per i pianeti più grandi e ci consente di calcolare le dimensioni di un pianeta. Nemmeno il JWST riesce a separare questi piccoli pianeti dalle loro stelle ospiti, poiché orbitano troppo vicini a esse. Ma c’è un modo per “vedere” l’atmosfera del pianeta da questa luce aggrovigliata.

Quando un pianeta passa davanti alla sua stella, parte della luce stellare filtra attraverso l’atmosfera del pianeta, colpendo le molecole di gas o gli atomi lì presenti, nel suo percorso verso di noi sulla Terra. Ogni gas modifica la luce in modo suo. Dalla luce che riceviamo da quel sistema stellare, possiamo dedurre quale potrebbe essere la composizione di quell’atmosfera. Questa è chiamata spettroscopia di trasmissione, una tecnica comprovata che è stata precedentemente utilizzata per confermare la presenza di CO₂ nell’atmosfera di un esopianeta.

Il gruppo di astronomi che ha studiato il pianeta L 98-59d ha ottenuto lo spettro di trasmissione dell’atmosfera dell’esopianeta da tali osservazioni e lo spettro ha suggerito la possibile presenza di un’atmosfera piena di anidride solforosa e acido solfidrico. Questa scoperta è sorprendente, in quanto è in netto contrasto con le atmosfere dei pianeti rocciosi del nostro sistema solare, dove il vapore acqueo e l’anidride carbonica sono molto più diffusi.

L’atmosfera terrestre, ad esempio, è ricca di azoto e ossigeno, con tracce di vapore acqueo. Venere invece ha un’atmosfera densa dominata dall’anidride carbonica e anche Marte ha un’atmosfera sottile dominata dall’anidride carbonica. I ricercatori hanno utilizzato modelli al computer che incorporano la comprensione delle atmosfere planetarie e la luce proveniente da L 98-59d per elaborare un’immagine potenziale della composizione dell’atmosfera di quel pianeta.

L’assenza di gas comuni come l’anidride carbonica e la presenza di SO₂ e H₂S suggeriscono un’atmosfera modellata da processi completamente diversi da quelli a noi familiari nel nostro sistema solare. Ciò suggerisce condizioni uniche ed estreme su L 98-59d e, come detto sopra, una superficie fusa o vulcanica.

I precedenti

Saranno comunque necessarie ulteriori osservazioni per confermare la presenza di questi gas. Le osservazioni di JWST avevano già precedentemente individuato segni di SO₂ su un esopianeta, ma si trattava di un gigante gassoso, non di un mondo potenzialmente roccioso come L 98-59d. La potenziale presenza di SO₂ e H₂S solleva interrogativi sulla loro origine. Una possibilità è un vulcanismo causato dal riscaldamento mareale, molto simile a quello osservato sulla luna di Giove, Io.

L’attrazione gravitazionale della stella ospite su questo pianeta lo allunga e lo schiaccia mentre procede lungo la sua orbita. Questo moto può riscaldare il centro del pianeta, fondendone l’interno e producendo violente eruzioni vulcaniche e forse persino oceani di magma. In combinazione con la sua stretta vicinanza alla stella (un anno su questo pianeta è di sette giorni e mezzo terrestri), sulla superficie si possono raggiungere temperature davvero infernali.

Se future osservazioni supporteranno la presenza di tale atmosfera, non solo sarebbe il più piccolo esopianeta ad avere un’atmosfera rilevata, ma anche un passo cruciale verso la comprensione della natura di tali pianeti. Rilevare atmosfere su pianeti piccoli rocciosi è estremamente difficile, poiché i pianeti sono molto piccoli rispetto alle stelle ospiti e anche perché le radiazioni intense delle loro stelle spesso strappano via le atmosfere.

Queste osservazioni, sebbene allettanti, provengono solo da un singolo transito. Ciò significa che il “rumore strumentale” (ossia dati prodotti dallo strumento stesso e non dall’osservazione) e altri fattori hanno impedito di ottenere risultati statisticamente forti. Le future osservazioni di JWST saranno fondamentali per confermare o confutare tale analisi. L 98-59d potrebbe non essere un candidato per la vita come la conosciamo, ma studiarne l’atmosfera solforosa e il potenziale vulcanismo fornisce preziose informazioni sui mondi attorno ad altre stelle.

La focaccia neolitica

Uno studio condotto da ricercatori dell’UAB (Università autonoma di Barcellona) e dell’Università La Sapienza di Roma ha messo in luce che durante il Neolitico recente, tra il 7000 e il 5000 avanti Cristo, le comunità completamente agricole della regione della Mezzaluna Fertile del Vicino Oriente svilupparono una complessa tradizione culinaria che includeva la cottura di grandi pagnotte di pane e “focacce” con diversi sapori, su speciali vassoi noti agli archeologi come “vassoi di sgusciatura”. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Scientific Reports e ha coinvolto anche personale dell’Istituto Milà i Fontanals (IMF-CSIC) e dell’Università di Lione (Francia).

I vassoi di sgusciatura erano contenitori con una grande base ovale e pareti basse, realizzati in argilla grezza. Si differenziavano dai vassoi comuni per la loro superficie interna, contrassegnata da impronte o incisioni ruvide disposte in modo ripetuto e regolare. Precedenti esperimenti con repliche di questi vassoi e strutture di cottura simili a quelle trovate nei siti archeologici del periodo studiati avevano già permesso ai ricercatori di ipotizzarne la funzione.

Le ultime indagini hanno confermato che grandi pagnotte fatte con acqua e farina avrebbero potuto essere cotte su questi vassoi, poste in forni a cupola per circa 2 ore a una temperatura iniziale di 420°C. Le scanalature sulla superficie interna dovrebbero facilitare la rimozione del pannello una volta cotto. Avevano cioè la medesima funzione che oggi possiedono molte teglie per cucinare le torte.

Inoltre, le grandi dimensioni delle pagnotte, circa 3 chilogrammi, suggerivano che fossero destinate probabilmente al consumo comunitario. E questo apre una nuova finestra sulla ricerca di quanti lavori o prodotti fossero realizzati per un’intera comunità, piuttosto che per singole famiglie o individui.

Tornando ai vassoi, comunque, il gruppo di ricerca ha analizzato frammenti di ceramica di teglie di sgusciatura risalenti a un periodo compreso tra il 6400 e il 5900 aC per identificare se il loro utilizzo fosse finalizzato a essere contenitori per la cottura di impasti a base di cereali e se questi impasti possano essere stati conditi con prodotti come grasso animale o olio vegetale. I resti analizzati provengono dai siti archeologici di Mezraa Teleilat, Akarçay Tepe e Tell Sabi Abyad, situati nell’area tra Siria e Turchia.

Lo studio, basato su vari tipi di analisi chimiche, ha fornito prove chiare sia riguardo gli usi di questi manufatti, sia riguardo la natura degli alimenti in essi lavorati. In particolare, l’analisi dei fitoliti (residui di silice di origine vegetale) suggerisce che nelle “teglie” venivano lavorati cereali come il grano (Triticum) o l’orzo (Hordeum) ridotto in farina. Inoltre, l’analisi dei residui organici indica che alcune delle teglie erano utilizzate per cucinare alimenti contenenti ingredienti di origine animale, come grasso animale e, in un caso, condimenti di origine vegetale.

Lo stato di degradazione dei residui suggerisce che, in almeno due casi, le teglie raggiunte hanno temperatura compatibile con quelle sperimentalmente verificate per la cottura dell’impasto in forni a cupola. Infine, l’analisi della superficie ceramica esterna con presenza di residui di pane e residui di focaccia condita ha permesso di identificare l’usura d’uso che dice che i vassoi erano più e più volte utilizzati.

Spiega Sergio Taranto, autore principale dello studio, dell’UAB e La Sapienza: «Il nostro studio offre un quadro vivido delle comunità che utilizzano i cereali da loro coltivati per preparare pani e “focacce” arricchiti con vari ingredienti e consumati in gruppo. L’uso delle teglie di sgusciatura da noi identificato ci porta a considerare che questa tradizione culinaria del tardo Neolitico si sia sviluppata nell’arco di circa sei secoli e fosse praticata in un’ampia area del Vicino Oriente».

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