«Un fascista totale, fino al midollo», così il generale Mark Milley – Capo dei Joint Chiefs of Staff, la più alta carica militare, negli anni di Trump – avrebbe definito l’ex presidente in una conversazione con il giornalista Bob Woodward. Molti studiosi si sono interrogati, e continuano a interrogarsi, se sia appropriato accostare Trump al fascismo.

Per il lessico che utilizza, le sue inclinazioni autoritarie spesso ostentate (ultimo il riferimento ai generali di Hitler), il suo razzismo, il suo aver sdoganato intellettuali e organizzazioni di un suprematismo bianco a lungo ai margini della legittima comunità politica (il candidato alla Vicepresidenza, J.D. Vance e il figlio Eric Trump jr. hanno recentemente elogiato nella quarta di copertina un libro controverso che indica Franco e Pinochet come modelli positivi da seguire).

Alcuni esperti non esitano a definire Trump un fascista. Famoso in tal senso fu il mea culpa di uno dei più noti studiosi di fascismo, lo storico Robert Paxton. Che aveva a lungo invitato a non abusare del termine – a non cadere nella tentazione di «chiamare fascista» qualsiasi avversario o figura politica estrema, come appunto Trump. Ma che dopo i due mesi di tentata eversione successiva alla vittoria di Biden nel 2020, e l’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021, ammise di aver cambiato idea.

«L’incoraggiamento aperto di Trump all’uso della violenza per rovesciare un'elezione supera una linea rossa», scrisse allora Paxton. Definire Trump un fascista era divenuto «non solo accettabile, ma necessario». Una linea, questa, adottata negli anni precedenti da altri storici, rilanciata con forza in questa campagna elettorale, ma contestata e discussa.

Alla tesi del Trump fascista sono state mosse due obiezioni principali. La prima poggia sull’asserita solidità della democrazia statunitense. Di un sistema di pesi e contrappesi, e di divisioni di poteri – tra i diversi rami del governo e tra il centro federale e gli Stati – che limita la possibilità d’azione dell’Esecutivo. Quello americano è in fondo un presidenzialismo debole. Come peraltro evidenziato dalla stessa esperienza di Trump alla Casa Bianca, contraddistinta da uno scarto marcato tra la retorica radicale e un’azione di governo poco incisiva e assai convenzionale, dove dalle tasse alla deregulation alle nomine alle Corti, Trump aveva agito come avrebbe fatto qualsiasi altro presidente repubblicano.

Diametralmente opposta è stata l’obiezione mossa da chi invece non celebra la tenuta e la solidità della democrazia statunitense, ma ritiene Trump il naturale portato delle sue deficienze e contraddizioni.

«Lo stesso sistema che spesso ha reso Trump innocuo continua a non offrire risposte alla maggior parte degli americani», scrisse un altro famoso storico, Samuel Moyn, per il quale il dibattito sul Trump fascista distraeva da problemi ben più concreti e finiva per assolvere le classi dirigenti del paese, incluse quelle democratiche, dagli errori compiuti nei decenni precedenti, su tutti l’adozione di politiche che avevano contribuito a generare forme estreme di diseguaglianza.

Talora persa, dentro questa discussione, è però risultata la questione fondamentale della decontestualizzazione storica dell’esperienza fascista e del rischio, sottolineato invece inizialmente da Paxton, di un abuso e di una dilatazione semantica e concettuale della categoria di fascismo che la rendeva infine così generica e onnicomprensiva da risultare inutile. Come sottolineò con termini coloriti un altro noto storico del fascismo, Richard Griffin, «puoi essere un bastardo sciovinista, xenofobo e razzista senza per questo essere un fascista».

E si può guardare con preoccupazione a una seconda presidenza Trump senza immaginare camicie nere, incarcerazione dei nemici politici o campi di concentramento. Delle difficoltà della democrazia statunitense, e dell’imbarbarimento del confronto politico, Trump è stato per molti aspetti l’espressione più che l’agente, la conseguenza e non la causa. Da presidente ed ex presidente e ha però iniettato senza sosta ulteriore tossicità nel corpo affaticato di questa democrazia. E ne ha in fondo esposto fragilità e limiti.

Esemplificati anche dall’incapacità di generare quegli anticorpi necessari a inibirne una seconda candidatura, dopo l’eversione successiva alla sua sconfitta elettorale quattro anni fa. E anche questo spiega l’uso e abuso dell’analogia, che come scrive un’altra studiosa del fascismo, Maddalena Carli, le democrazie possono in fondo terminare e il sol pensarlo «è talmente spaventevole che forse l’unico modo per darvi un nome è chiamarlo appunto fascismo».

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