La sabbia è mista a frammenti di vetri taglienti. Come se qualcuno avesse svuotato interi sacchi di bottiglie rotte proprio qui, sull’arenile dimenticato di Qalamun, paesino alla periferia sud di Tripoli, nel nord del Libano, rampa di lancio abituale per i viaggi clandestini di migranti forzati palestinesi, siriani, libanesi, con un solo indirizzo in mano: l’Italia. E da lì verso il Belgio, «dove i palestinesi sono trattati meno peggio di altri paesi europei», oppure verso la Germania, «dove lo zio mi aspetta per farmi lavorare con lui».

Dallo scorso maggio e, in particolare, nel mese di agosto, sono ripresi intensi i viaggi di migranti dal nord del Libano. Si parte di notte dalle spiagge semi deserte a sud e a nord di Tripoli. Ma trafficanti e faccendieri, molti dei quali in stretto contatto con le conniventi autorità locali, organizzano quasi tutto alla luce del sole.

La maggioranza di chi rischia la vita in mare è composta da siriani, dalla scorsa primavera presi maggiormente di mira in Libano, paese da un decennio travolto dalla presenza massiccia di profughi in fuga dalla Siria in guerra. Ma dal 2020 a oggi è cresciuto in maniera esponenziale il numero di libanesi, colpiti dalla crisi economica del loro paese, e che hanno deciso di andar via come clandestini via mare. A questi si aggiungono i palestinesi di Nahr al Bared (45mila persone) e Beddawi (30mila), i due campi profughi che circondano Tripoli. Qui le fazioni armate – Hamas, Fatah, Jihad islamico – continuano a dominare la vita politica di queste comunità diseredate. Sullo sfondo della tragedia di Gaza, la priorità delle famiglie dei campi profughi in Libano rimane quella di sopravvivere e di trovare una prospettiva dignitosa.

Riad e la marea di disperati

Con la torcia accesa puntata sui vetri a terra, Riad si avvicina al “punto di raccolta”, indicato il giorno prima da un intermediario del trafficante della zona. Nelle sue orecchie risuonano ancora gli slogan della parata pseudo-militare organizzata dal Jihad islamico di Nahr al Bared. Al corteo, organizzato per celebrare “i martiri” dell’ennesimo bombardamento israeliano sulla Striscia, avevano partecipato i quadri del gruppo armato e molta altra gente del campo.

Riad ha deciso di partire da solo. Lasciando, per ora, dietro di sé, in una casupola con le pareti nude e con teli di plastica fermati col nastro adesivo come finestre, i due figli e la moglie. I pochi risparmi messi da parte, vendendo pane secco e verdure in scatola, non sono certo bastati a pagare i tremila dollari di acconto per prenotarsi un posto sull’imbarcazione. Questa, a detta dell’intermediario, si trova ora a largo. E aspetta di caricare tutti i “passeggeri” per salpare verso le coste italiane.

Una colletta di familiari e amici, con la promessa di restituire tutto appena «mi sarò sistemato», e l’aiuto di altri parenti nel lontano Brasile, ha permesso a Riad di trovarsi, in questa notte buia libanese, assieme a una marea inaspettata di altri disperati. Per lo più siriani, ma anche qualche libanese. Alcuni di questi libanesi vivono da tempo nel campo profughi, dove la vita costa meno del resto del Libano attanagliato dalla peggiore crisi finanziaria della sua storia e dove i prezzi sono ormai tutti in dollari. La guerra scoppiata il 7 ottobre ha inflitto al già fragilissimo contesto socio-economico libanese un colpo duro, spingendo ampi strati della popolazione sul lastrico, reso meno ruvido e freddo dall’invio delle rimesse della diaspora.

I meno poveri tra i poveri

I migranti che partono dal nord del Libano verso l’Italia non sono i più poveri tra i poveri. Questi ultimi non potrebbero nemmeno pensare di raccogliere migliaia di dollari a testa per partire. Chi invece riesce a mettere assieme dai cinque ai 20mila dollari per sé e per gli altri membri della famiglia si indebita e svende tutto quello che può: automobili, terreni, case, persino quelle mai terminate e rimaste nude con lo scheletro di ferro che spunta minaccioso dalle colonne di cemento.

La trattativa col trafficante di turno – ma per lo più con i suoi mille intermediari – avviene al ribasso. La valutazione dei beni è sempre sfavorevole, come in ogni stretta di collo da parte di un cravattaro. Riad non aveva nulla da mettere sul piatto. E ora si trova con i sandali di plastica sprofondati tra i vetri e la sabbia a osservare un numero impressionante di persone. «Non erano questi i patti!», dice un padre di famiglia all’intermediario. «Ci avevi detto che saremmo stati in tutto 80 persone». Tra gli alberi, che proteggono solo in apparenza la scena da sguardi indiscreti, e la spuma delle onde sono assiepate almeno 200 persone, tra cui molte donne e bambini. «Non c’è tempo per discutere. L’esercito può arrivare in ogni momento», replica l’intermediario, cugino di quel trafficante – figlio arricchito di un pescatore – che tutti conoscono ma col quale quasi nessuno osa parlare.

Senza salvagente, verso l’ignoto

Nel campo di Nahr al Bared, il faccendiere aveva assicurato a Riad che i militari non si sarebbero fatti vivi sulla spiaggia.

«È tutto sistemato. Spengono i radar e ci danno mezz’ora per uscire tranquilli». Riad spera che vada tutto liscio. Le feluche che attendono quella piccola marea umana ora sono due. Sono di legno. «Reggono, reggono…sono nuove, quelli di Tartus sono bravi». Sussurra qualcuno intercettando l’inquietudine collettiva e riferendosi al fatto, ben noto a tutti, che nella vicina isola siriana di Arwad, di fronte al porto di Tartus, a due passi dalla maggiore base marittima militare russa in tutto il Mediterraneo, da decenni si fabbricano imbarcazioni per pescatori. E per trafficanti.

Riad sale sulla feluca, ora strapiena. Pianti urlati di bimbi, imprecazioni di uomini. Una donna si lamenta perché i giubbotti di salvataggio non bastano. Alcuni li hanno comprati, molto cari, al mercato nero della migrazione clandestina che dà lavoro e fortuna a intere famiglie. Molti altri, a cui era stato detto che i giubbotti sarebbero stati distribuiti dagli intermediari perché “inclusi nel pacchetto”, rimangono senza quell’oggetto tanto agognato in caso di naufragio.

Da maggio a settembre, ogni notte, partono da Qalamun dai due ai quattro viaggi. Secondo i dati raccolti localmente nel corso di un anno, il rischio di essere intercettati e respinti è del 30 per cento. Il rischio di morire in mare è del 10 per cento.

L’imbarcazione più grande, in gergo detta lansh (lancia), attende silenziosa a largo. Da lì, avevano spiegato a Riad, si punterà verso l’Italia. Per sette giorni, se tutto va bene, evitando i guardacoste ciprioti e, soprattutto, i temibili pirati assoldati dai greci per scoraggiare i clandestini. Riad è partito due giorni fa. Di lui non si hanno ancora notizie. Ma tra i vetri della spiaggia di Qalamun è rimasto il mozzicone della sua ultima sigaretta.

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