I guadagni realizzati nella prima metà del 2022 sono enormi rispetto al 2019, prima della pandemia. Il 50 per cento è stato distribuito agli azionisti. Nessuna accelerazione sulla transizione energetica
Le sei maggiori compagnie petrolifere europee avrebbero generato 74,55 miliardi di dollari di extra-profitti nel solo primo semestre del 2022, grazie all’impennata dei prezzi di petrolio e gas esasperata dalla crisi ucraina. Lo dimostra una ricerca dell’ong ReCommon, in collaborazione con Merian Research, che Domani ha ottenuto in esclusiva.
«Abbiamo confrontato gli utili generati da Bp, Eni, Equinor, Repsol, Shell e TotalEnergies nel primo semestre del 2022 con quelli dello stesso periodo del 2019, in modo da depurare i numeri dagli effetti immediati della pandemia», spiega Antonio Tricarico, responsabile di ReCommon. Gli extra-profitti sono stati misurati anche in termini di free cash flow, e cioè del cash effettivamente generato una volta finanziati gli investimenti: oltre 46 miliardi di dollari dal 2019 al 2022. Una manna per i produttori di combustibili fossili.
La Norvegia batte tutti i record
Equinor, controllata al 67 per cento dal governo norvegese, ha generato da sola utili addizionali per 28 miliardi di dollari: il 38 per cento degli extra-profitti totali delle sei compagnie analizzate. Tra il 2019 e il 2022, il segmento “esplorazione e produzione” (di petrolio e gas) in Norvegia è cresciuto del 450 per cento, mentre il peso del gas sul totale dei ricavi è più che raddoppiato.
Nel secondo trimestre del 2022, Equinor ha aumentato la produzione di gas del 18 per cento rispetto allo stesso periodo del 2021, rendendo la Norvegia il più grande fornitore in Europa, dopo che la Russia ha tagliato le forniture. Non sorprende, quindi, che il governo di Oslo negli ultimi giorni si sia posizionato con nettezza contro l’imposizione dell’UE di un tetto al prezzo del gas.
Anche in tutte le altre società analizzate gli extra-profitti si spiegano con un’esplosione degli utili nel comparto “esplorazione e produzione” (+108 per cento per l’italiana Eni) e, in alcuni casi, nella raffinazione. Il tutto in presenza di una generale riduzione della produzione di idrocarburi negli ultimi tre anni. Dal 2019 si sono estratti meno petrolio e gas (-13,5 per cento in media) ma i prezzi sono saliti talmente tanto da spingere comunque alle stelle i profitti.
Una valanga di dividendi
Agli extra-profitti sono seguiti, in quasi tutti i casi analizzati, programmi molto generosi di remunerazione degli azionisti, tramite dividendi e, soprattutto, piani di riacquisto di azioni proprie (in inglese “share buyback”). Se i dividendi sono cresciuti in modo tutto sommato contenuto, i piani di “share buyback” hanno raggiunto volumi eccezionali.
La compagnia britannica BP ha dichiarato di voler usare il 60 per cento del cash in eccedenza per riacquistare azioni proprie (3,9 miliardi di dollari nel primo semestre del 2022). Eni ha aumentato il suo impegno di buyback a 2,4 miliardi di euro nel luglio di quest’anno. Shell supera tutti, con un piano di riacquisto di azioni proprie da 8,5 miliardi di dollari per la prima metà del 2022, a cui si è aggiunto un nuovo programma per 6 miliardi di dollari, che sarà completato entro ottobre.
Riacquistando le proprie azioni sul mercato, per miliardi di euro, le imprese fanno salire il loro prezzo e gli azionisti possono venderle, intascando elevate plusvalenze. Una festa per gli azionisti privati, tra cui svettano i grandi gestori di fondi come BlackRock, Amundi o Vanguard. In base a quanto rilevato dalla ricerca, nel primo semestre del 2022 le principali compagnie petrolifere europee hanno distribuito agli azionisti 31 miliardi di dollari, corrispondenti al 42 per cento degli extra-profitti in termini di utili e al 67 per cento degli stessi in termini di cash disponibile (free cash-flow).
Investimenti invariati, decarbonizzazione al palo
La distribuzione dei profitti straordinari agli azionisti sembra essere, per ora, l’unica strategia contemplata dalle grandi compagnie petrolifere europee per impiegare i contanti in eccesso. I piani di investimento per il futuro, infatti, sono rimasti invariati nella maggior parte dei casi mentre, dal 2019 al 2022, il volume degli investimenti è calato in media del 17 per cento, con la sola eccezione di TotalEnergies, dove è aumentato del 54 per cento (-9 per cento per Eni).
Restano al palo anche gli investimenti nella transizione energetica che, a leggere gli ambiziosi piani di quasi tutti i big europei del petrolio, dovrebbe portare all’azzeramento delle emissioni nette di CO2 entro il 2050.
«Gli investimenti presunti verdi variano dal 10 per cento del totale investito di Equinor al 25 per cento di Eni, con una media del 19 per cento», spiega Antonio Tricarico di ReCommon. «Gli extra-profitti non hanno spinto ancora nessuna compagnia petrolifera ad accelerare sulla transizione energetica».
Per capire quale sia la vera priorità attuale dei big del petrolio europei basta un dato, che emerge chiaramente dalla ricerca: in tutto il 2022 le sei società analizzate investiranno in totale circa 9 miliardi di dollari in tecnologie green, mentre nel solo primo semestre dell’anno hanno già distribuito 31 miliardi di dollari di extra-profitti agli azionisti. Quasi tre volte e mezzo di più.
«Le compagnie petrolifere hanno un problema comune: negli ultimi anni sono state assediate dagli azionisti, che vogliono sia loro restituito più capitale possibile. Nessuno sta più investendo in esplorazione e produzione e tantomeno nella raffinazione, a causa della transizione energetica. Gli azionisti vogliono accaparrarsi il surplus di cash prima che sia troppo tardi. È una tendenza che precede la guerra in Ucraina», ha spiegato a Domani Mario Seminerio, investitore istituzionale.
L’avidità di capitale da parte degli azionisti si è vista chiaramente il 28 luglio, quando TotalEnergies ha annunciato un nuovo piano di riacquisto di azioni proprie per un massimo di 2 miliardi di dollari per il terzo trimestre del 2022. Troppo modesto e conservativo per gli investitori, che si aspettavano un aumento di 3 miliardi. Lo stesso giorno il titolo di Total è stato punito in borsa con una raffica di vendite e ha chiuso la giornata a -3 per cento.
Se gli investimenti massicci in nuovi progetti di estrazione non sono più un’opzione, nemmeno le rinnovabili sarebbero una via percorribile nel breve periodo. «Gli investimenti verdi non sono così semplici da attuare», ha spiegato a Domani Guido Hoymann, capo della ricerca azionaria di Bankhaus Metzler, storica banca privata tedesca, con sede a Francoforte. «Le compagnie petrolifere sono arrivate tardi e si scontrano con prezzi di ingresso astronomici. Inoltre, nel breve periodo c’è carenza di progetti di grandi dimensioni».
Lo stato prova a riprendersi i soldi
Nel frattempo alcuni Stati hanno pensato di introdurre forme di tassazione straordinaria, con strategie molto diverse. In Italia l’imposta sugli extra-profitti è stata disegnata sul saldo delle operazioni IVA. A Eni, in base al ricalcolo reso noto dalla stessa azienda agli inizi di settembre, dovrebbe costare 1,4 miliardi di euro (contro i 546 milioni di euro inizialmente previsti), che si sommano ai 230 milioni stimati per le attività nel Regno Unito, colpite dalla “Energy Profits Levy”, l’extra-tassa britannica, che aumenta l’aliquota d’imposta principale sui profitti dal 40 per cento al 65 per cento.
In Spagna, dove è stato avviato l’iter per l’applicazione di un’imposta addizionale dell’1,2 per cento sul fatturato delle compagnie energetiche, Repsol potrebbe arrivare pagare fino a 1 miliardo di euro, in base alle stime della ricerca di ReCommon. Mentre in Norvegia esiste già dal 1996 una tassa supplementare sui redditi da petrolio, oggi pari al 56 per cento. In Francia, per ora, Total è riuscita a scongiurare tasse straordinarie applicando sconti sui carburanti alla pompa, ma pagherà comunque circa 500 milioni di dollari per le sue attività in Gran Bretagna.
Se si eccettua Equinor, i cui profitti sono già da tempo tassati in Norvegia con aliquote complessive superiori al 70 per cento, il peso totale delle tassazioni straordinarie degli extra-profitti nei vari Paesi europei sarà comunque molto limitato. In base alle stime di ReCommon potrebbe essere pari, alla fine, a meno del 5 per cento degli extra-profitti generati, poco più di una mancia per le grandi società.
Una magra consolazione per i cittadini oberati da prezzi di energia e gas ormai fuori controllo, a fronte dell’ipocrisia dei governi europei che, dopo infinite discussioni stanno mettendo mano alla fiscalità generale, se non a nuovi deficit, per sussidiarie il pagamento delle bollette ed evitare rivolte sociali.
Resta da vedere se la proposta di tassazione delle società energetiche prevista dal nuovo pacchetto, annunciato mercoledì 14 settembre dalla Commissione Europea, porrà un qualche rimedio.
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