Nei suoi anni da banchiere centrale il premier italiano Mario Draghi ha imparato a maneggiare con cura parole e tempo.

Gli annunci perentori capaci di placare i mercati per cui viene ricordato si sono sempre sovrapposti alla necessità di muoversi essenzialmente nel campo dei tempi medi e lunghi delle variabili economiche. Arrivato a Palazzo Chigi, Draghi deve lavorare su uno schema temporale simile.

La legge di bilancio appena varata ne è un perfetto esempio.

Il premier ha comprato il consenso di partiti litigiosi con misure economiche dosate al bilancino dell’alchimista politico. Poco importa che si sia trattato di approvare modifiche al reddito di cittadinanza che invece di giustificati correttivi appaiono uno scalpo da esibizione, esito di una vendetta consumata in consiglio dei ministri sulla pelle di molti, o di prorogare eccezioni previdenziali costose a favore dell’ennesima minoranza rappresentante solo di se stessa, che non cambiano nulla alla maggioranza destinata ad andare in pensione con la legge Fornero necessaria a garantire la sostenibilità del sistema.

Il compromesso con il bilancino tra partiti permette al governo di acquistare tempo. Il fattore fondamentale per realizzare la vera agenda che impegna la gran parte delle giornate delle macchine dei ministeri, quella di un piano nazionale di ripresa e resilienza da circa 196 miliardi, al netto dei fondi di coesione: una massa di investimenti tale e a tempo che il paese non ha mai gestito prima.

Uscito dai radar del dibattito pubblico, il piano nazionale di ripresa e reislienza sta in realtà entrando nel vivo proprio ora, per il semplice fatto che il programma licenziato dall’esecutivo e su cui abbiamo preso impegni di fronte agli altri 26 paesi dell’Unione europea, prevede tutte le scadenze da rispettare per ottenere le tranche dei fondi nell’ultima parte dell’anno, ogni anno e per i prossimi cinque anni.

Concentrare tutti gli obiettivi da realizzare a partire dall’autunno «è una scelta comprensibile se si considera il traguardo come l’approdo finale del lavoro dei mesi precedenti», dice l'economista Giorgio Musso, che sta monitorando il Pnrr per l’osservatorio sui conti pubblici dell’Università Cattolica di Milano, ma espone anche a rischi maggiori sul piano del rispetto delle tempistiche.

Un’agenda con 527 scadenze

Le scadenze da rispettare, secondo i calcoli dello stesso esecutivo dettagliati in un decreto di agosto - finora il documento più chiaro e utile sul Pnrr - sono in tutto più di cinquecento.

Per la precisione 527, tra 213 traguardi qualitativi – la legge delega sulla riforma del processo penale, ad esempio – e 314 obiettivi quantitativi – la riduzione del numero dei processi che oltrepassano per durata la media europea, per stare nel campo della ministra Marta Cartabia.

Il decreto di agosto elenca per ogni ministero il numero di obiettivi da centrare, entro quando, e i fondi di cui i ministri sono titolari. Questi dati analizzati e rielaborati dall’Osservatorio sui conti pubblici restituiscono una fotografia diversa rispetto a quella scattata alla nascita del governo del peso specifico dei membri dell’esecutivo e dell’attività dei diversi ministeri.

Una fotografia diversa

Guardato attraverso la lente del piano nazionale di ripresa e resilienza, l’esecutivo Draghi cambia equilibri: alcuni ministeri si gonfiano di fondi e di progetti da elaborare, altri perdono peso relativo. Alcuni devono operare con una rapidità doppia o tripla di altri, in una corsa da cui dipende l’erogazione dei fondi europei e che mal si concilia con le scadenze dei partiti.

I miliardi del programma Next Generation Eu piovono soprattutto su quattro ministeri, responsabili di dieci o più progetti da portare a termine e fondi che si avvicinano o superano la taglia di una manovra finanziaria, il ministero delle Infrastrutture e della mobilità sostenibili e quello della Transizione ecologica su tutti.

A Enrico Giovannini e Roberto Cingolani spetta, infatti, la gestione di 20 e 26 progetti per rispettivamente un totale di 39,70 e 34,68 miliardi, cifre ingenti ma prevedibili considerata la natura del Piano nazionale di ripresa e resilienza.

Subito dopo i due ministeri tecnici, viene Il ministero dello sviluppo economico di Giancarlo Giorgetti. Il leghista tendenza Draghi Giorgetti gestirà un portafoglio di 18,16 miliardi e dieci progetti, mentre al dicastero dell’Istruzione guidato da Patrizio Bianchi sono destinati 17,59 miliardi e la responsabilità di undici progetti.

Di fatto Giorgetti, è l'unico politico schierato sulla prima linea per il Piano nazionale di ripresa e resilienza.

Appena più indietro, c’è il ministro della Salute, Roberto Speranza, con una dote di 15,63 miliardi di euro e otto progetti, la maggiorparte dei quali tuttavia per natura del nostro sistema sanitario dovrebbero essere gestiti con e dalle regioni.

Oltre al ministero della Salute, nel secondo girone o cielo che dir si voglia, a seconda che si consideri l’inferno degli impegni o il paradiso della possibilità di spesa, c’è l’ultimo ministro “tecnico”, Vittorio Colao, che con il ministero dell’innovazione raccoglie 12,85 miliardi per nove progetti. Ma anche, più inaspettatamente, quello dell’Interno, guidato da Luciana Lamorgese con 12,49 miliardi e cinque progetti, e quello dell’Università e ricerca della ministra Maria Cristina Messa, con 11,73 miliardi a disposizione per 12 progetti.

L’ammontare dei fondi, ovviamente, non è l’unico criterio per determinare quanto sia cruciale l’attività di un ministro per la riuscita dell’intero progetto.Alcuni membri del governo, a partire dal ministro della Pubblica amministrazione, Renato Brunetta, hanno in capo riforme cruciali per tutti gli altri. Ma lo stesso decreto del governo sulla gestione del piano mostra che la capacità di spesa del singolo dicastero corrisponde più o meno anche al numero di progetti che deve portare a compimento e agli obiettivi ad esso collegati.

Il caso Giorgetti

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Giorgetti, per esempio, è titolare di un pacchetto che include sia la proroga delle misure di credito di imposta di industria 4.0, sia tutti i nuovi progetti strategici di respiro europeo: quelli sulla filiera dell’energia, cioè un miliardo di investimenti in batterie e energie rinnovabili, gli Ipcei (Important Projects of Common European Interest, letteralmente importanti progetti di interesse comune europeo), che valgono da soli 1,5 miliardi e toccano comparti come l’idrogeno e la microelettronica, ma anche i partenariati che dipendono dai finanziamenti di ricerca europei, Horizon Europe, l’estensione dei centri territoriali di sviluppo tecnologico, i fondi per start up e venture capital e quelli per le imprese femminili.

Tutti bandi che dipendono sostanzialmente dal ministero e che possono interessare centinaia di aziende.

In altri casi va diversamente. Per esempio la maggioranza dei beneficiari dei finanziamenti del ministero più ricco, quello delle Infrastrutture, sono a livello di commesse complessive necessariamente già scritti: la parte del leone lo fa il gruppo delle Ferrovie dello stato i cui progetti sono stati alla base della stesura del capitolo sulle infrastrutture ferroviarie, le più finanziate per rispettare il criterio della sostenibilità ambientale e arriveranno a cascata alle aziende poi coinvolte nei cantieri.

Anche il ministero di Lamorgese nonostante disponga formalmente di dodici miliardi ha un ruolo molto meno strategico di quello del ministero dello Sviluppo. I progetti di stretta competenza del ministero, infatti, si limitano alla riconversione energetica dei mezzi di trasporto delle forze dell’ordine per poche centinaia di milioni, mentre la quasi totalità dei fondi, circa 12 miliardi, sono tutti destinati ai comuni.

«Al momento», dice Musso, «c'è ancora poca trasparenza sul ruolo che avranno gli enti locali nella gestione delle risorse».

Regioni e comuni

Nell’attesa di indicazioni chiare che possano aiutare una mappatura più precisa di responsabilità, poteri e fondi, l’ufficio parlamentare di bilancio ha analizzato gli allegati della versione del Pnrr inviata a Bruxelles e pochi giorni fa ha stimato che le amministrazioni locali, tra regioni, province e comuni, gestiranno una forchetta di fondi tra 66 e 71 miliardi, più di un terzo del totale del piano.

Secondo i calcoli dell’ufficio parlamentare di bilancio l’intervento degli enti locali riguarderà soprattutto gli ambiti di loro competenza e cioè sanità e servizi sociali, a conferma di quanto alcuni ministeri dovranno più che altro monitorare la capacità di progettazione, rispetto dei tempi, spesa e realizzazione di altre amministrazioni dello stato.

Anche per questo la prima finanziaria del governo Draghi ha impresso una svolta nei rapporti con gli enti locali.

Il ministero della pubblica amministrazione ha ottenuto i fondi per l’aumento degli stipendi di sindaci e assessori di comuni, equiparando i primi cittadini delle città metropolitane ai presidenti di regione. Soprattutto sono aumentati e aumenteranno progressivamente i fondi per il funzionamento di comuni e province, chiudendo la stagione in cui abbiamo fatto finta di cancellare gli enti locali, senza però diminuirne le funzioni, e quindi di fatto fingendo tagli alla burocrazia che si sono tradotti in tagli di risorse a funzioni pubbliche. Ora la necessità di oliare tutti gli ingranaggi della macchina del Piano nazionale di ripresa e resilienza ha chiuso quella stagione, e lo ha fatto appena in tempo.

Le due agende

Chi lavora agli uffici dei ministeri sa che mai come in questo momento le due agende di governo, quella dei partiti, e quella del piano di ripresa, divergono.

L’agenda della politica ha davanti la maratona per arrivare nei primi mesi del 2022 alla elezione del nuovo presidente della Repubblica, che porta con sé l’incognita di una campagna elettorale anticipata, nel caso in cui fosse Draghi il prescelto per salire al Quirinale. Dall’altra proprio nel 2022 il piano nazionale di ripresa e resilienza avrà il suo primo picco con ben cento scadenze fondamentali da raggiungere, per inanellare poi i traguardi successivi.

Le fasi sono quasi inconciliabili. Il maggior numero di scadenze del piano nazionale si concentra nell’ultimo anno, il 2026, dove per forza di cose saremo chiamati a mostrare i risultati, primo fra tutti la realizzazione delle grandi opere infrastrutturali. Viene poi il secondo picco nel 2022, seguito dal 2023 e il 2024 con rispettivamente 96 e 89 obiettivi.

In sostanza più quasi la metà dei traguardi del Pnrr cade a cavallo del voto del Quirinale e la possibile consultazione elettorale. Per il ministero della transizione ecologica che è sotto ogni punto di vista il principale protagonista del piano nazionale di ripresa e resilienza il picco del lavoro è nel 2022, così come per quello dell’università e della ricerca, mentre per quello dell’innovazione tecnologica è il 2023.

Per la metà del 2023, infatti, l’anno in cui a meno di sorprese dovrebbero esserci le elezioni politiche, il ministero guidato da Vittorio Colao deve aver aggiudicato tutti i bandi per il cloud delle pubbliche amministrazioni. Quello della transizione ecologica deve aver avviato tutte le sperimentazioni sulla produzione dell’idrogeno, anche quelle delle hydrogen valleys, con la riconversione delle aree industriali dismesse. Quello della pubblica amministrazione deve aver trasformato in legge tutta la riforma del pubblico impiego.

C’è però anche qui una grande divisione all’interno del governo. Anche la distribuzione degli obiettivi da raggiungere, esattamente come quella dei finanziamenti che ne derivano, è infatti concentrata solo su un numero ristretto di ministeri.

La pubblica amministrazione e il turismo hanno 18 tra traguardi e obiettivi da centrare, meno di un quarto di quelli di cui si deve occupare il ministero della transizione ecologica, a quota 88, ma anche meno di un terzo dei 67 della innovazione tecnologica e dei 57 del ministero delle infrastrutture e ancora meno della metà di quelli che toccano al ministero dell’Economia e delle finanze (42).

Questa volta il ruolo dei ministeri politici è ancora più collaterale: il solito Giorgetti, e l’eventuale successore, devono rispettare 26 obiettivie e traguardi, Speranza e eredi ne hanno 25. Tutti gli altri ministeri politici hanno un’agenda meno fitta.

Il ministero dell’economia

Il ministero dell’Economia guidato dal numero due di Draghi, Daniele Franco, quasi il suo alter ego, è un caso a sé. Punto di raccordo e di riferimento per tutto il piano, grande controllore dell’attuazione dei progetti attraverso la ragioneria dello stato, ha anche un corposo pacchetto di obiettivi da raggiungere, di cui più della metà, 24 su 42, cadono nel 2023 e nel 2024, cioè gli anni centrali del Pnrr e anche i più delicati dal punto di vista degli equilibri politici.

Per molti anni il ministero dell’economia dovrà dimostrare all’Ue di aver puntualmente abbattuto la quota di mancati adempimenti fiscali. di aver centrato gli obiettivi del piano per la spending review delle spese dello stato, e anche di aver ridotto i tempi di pagamento delle pubbliche amministrazioni e delle strutture sanitarie.

Poi ha per le mani alcune riforme cruciali. Nel 2022 è prevista, per esempio, l’entrata in vigore della riforma dell’amministrazione fiscale, per cui l’ultima finanziaria ha posto le fondamenta con l’accorpamento della agenzia per la riscossione nell'agenzia delle entrate.

A metà del 2023 poi c’è la boa dell’invio delle prime dichiarazioni fiscali Iva, una mezza rivoluzione. E a metà del 2024 la riforma delle norme di contabilità pubblica. Tutte condizioni che rendono almeno plausibile l’ipotesi che Franco resti anche nel caso in cui Draghi lasci l’esecutivo per salire sul Colle più alto.

 

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