Produrre di più per vendere di più: una strategia semplice che per il mondo del fashion ha funzionato per diversi anni. Questo modello si è sempre basato su un segreto: il numero di capi invenduti, che fino a poco tempo fa terminavano la loro vita in un inceneritore.

Ogni anno nel mondo vengono prodotti circa 150 miliardi di capi di abbigliamento, ma solo una percentuale che oscilla tra il 70 e l’80 per cento viene venduta. Circa 40 miliardi di abiti, accessori, scarpe, vengono distrutti, senza mai essere stati indossati da nessuno. Secondo l’Agenzia europea per l’ambiente sono circa 400mila tonnellate i tessili inceneriti. Tra poco non potranno essere più distrutti, a seguito dell’adozione del Regolamento sull'ecodesign, già approvato dal Parlamento. Ma di fatto, per il timore di danni di immagine, i brand della moda hanno già rinunciato a questa pratica.

Sei generazioni

Il problema della sovrapproduzione nasce per convincere i consumatori ad acquistare sempre di più, proponendo continuamente nuovi oggetti da desiderare. Si consuma troppo perché si produce troppo. Succede così, acquistando un pezzo alla volta, che gli armadi diventano stanze e che per ricordare cosa si è acquistato si deve ricorrere a una app per la gestione del guardaroba.

Allo stesso tempo creare un’offerta così ampia porta anche ad avere enormi sprechi: la gestione degli abiti invenduti è uno dei problemi più urgenti da gestire per il sistema moda, che già deve fare i conti con enormi sfide per ridurre il proprio impatto ambientale e sociale.

Secondo il British fashion council gli abiti, le scarpe, le borse che abbiamo potrebbero essere sufficienti per vestire le prossime sei generazioni. Fino a qualche tempo fa gli abiti si compravano a inizio stagione ed erano quindi scelti in maniera razionale, per coprire le necessità dei mesi successivi. Ma comprandone uno alla volta, si finisce con il dimenticare cosa è davvero necessario e si acquista quello che piace sul momento.

A stimolare la voglia di shopping ci pensano le campagne di marketing, sempre più aggressive, che propongono nuovi trend da seguire: si ha la sensazione di non stare mai al passo, si fa leva sull’insicurezza e si finisce prigionieri del sistema.

Il nuovo regolamento europeo

Per anni la gestione degli invenduti e il loro incenerimento sono avvenuti in silenzio, senza che nessuno sapesse. Poi, grazie all’impegno di alcune organizzazioni, questi comportamenti sono stati documentati e condivisi con il pubblico.

In questo modo il problema è venuto alla luce: è stata la Francia il primo paese a vietare la distruzione degli abiti invenduti, con la famosa legge anti-spreco. L’Europa ha deciso di seguire la stessa strada. La norma che ne vieterà in maniera definitiva la distruzione è contenuta nel Regolamento sul’ecodesign, che sancisce anche l’obbligo di trovare soluzioni alternative come la rivendita, la donazione o il riciclo.

Un vero e proprio rebus, perché nessuno sa come gestire questa enorme massa di scarti, che per adesso vengono raccolti in grandi magazzini sparsi ovunque in Europa, aspettando di trovare una soluzione.

Si possono percorrere chilometri all’interno di enormi spazi che raccolgono milioni di abiti, scarpe, borse, rimasti sospesi in un limbo in attesa di una destinazione. Non sono stati venduti, non possono essere distrutti. Rappresentano l’esempio più evidente di un sistema che si è inceppato e che non sa in quale direzione andare.

Quasi un reso su due viene distrutto

Nella categoria dei tessili invenduti, secondo la Commissione europea, ci sono tre categorie di prodotti: le scorte in eccesso, che non vengono vendute in negozio; gli abiti che non vanno più di moda e infine quelli che vengono restituiti.

Secondo l’Agenzia europea per l’ambiente, fino al 40 per cento dei resi degli e-commerce a oggi viene distrutta, perché gestirli per rimetterli in vendita avrebbe un costo maggiore. Con il divieto, anche questi capi andranno a ingrossare la massa di invenduti nei magazzini.

Difficile dire quanti siano i capi prodotti che aspettano di conoscere che fine faranno: tanti, tantissimi, ma non ci sono cifre ufficiali, solo stime.

I brand non contano gli invenduti

Nemmeno i brand sanno con precisione a quanto ammonta il loro invenduto, che si crea principalmente per una programmazione poco efficace. Quando si decide di produrre un capo è anche necessario prevedere la domanda del mercato, decidere quanti ne andranno prodotti, in quali colori. Questa operazione può avvenire anche mesi prima che il capo finisca in negozio: nel lasso di tempo tra il via libera alla produzione e l’arrivo effettivo del prodotto possono accadere tante cose.

Ad esempio, la stagione può essere più calda o più fredda del previsto oppure i colori scelti possono non essere stati accolti bene dal mercato. Ma l’altro grande problema è che si produce anche troppa scelta: ci sono collezioni che si compongono di migliaia di prodotti proposti per ogni stagione e questi diventano poi difficili da gestire, aumentando il rischio di errore.

Quello sbaglio diventa uno spreco, che per adesso è un numero quasi segreto, che nessun brand vuole condividere, ma anche in questo caso la Commissione europea sta intervenendo. Con la revisione della Direttiva sui rifiuti, i brand dovranno infatti dichiarare sui propri siti internet quanti capi hanno prodotto e quanti ne hanno effettivamente venduti: lo spreco non sarà più invisibile.

L’industria del lusso

Non è un problema che riguarda solo il fast fashion: la sovrapproduzione e il continuo rinnovamento delle collezioni sono stati inventati dalle grandi catene di abiti a basso costo, questo è vero. Ma quel modello di business ormai è adottato anche dai brand del lusso, sommersi dagli invenduti come gli altri marchi di grandi dimensioni.

In questo periodo il problema è ancora più evidente: c’è una forte crisi nei consumi, si compra meno e quindi ci sono collezioni che ancora non sono arrivate in negozio. Così la produzione nei distretti si è fermata e nessuno sa bene quando si riprenderà a produrre.

Cercasi pionieri

Una soluzione al problema potrebbe essere quella di riusare o riciclare le varie componenti dei capi di abbigliamento. Ma è una strategia non così semplice da attuare. Spesso gli abiti e le calzature sono formati da molte componenti e devono essere disassemblati.

Si tratta di un lavoro che deve essere fatto a mano, con grande attenzione e che è molto costoso. E non basta a risolvere il problema: una volta che il capo è smontato e restano le varie componenti isolate, inserire nuovamente questi materiali nel ciclo di produzione è complesso. Innanzitutto, perché mancano adeguate tecnologie per il riciclo, adatte a gestire grandi quantitativi di materiali.

Immaginare di allungare la vita di quello che già è presente sul mercato potrebbe invece dare spazio a nuovi servizi, che creano valore, senza aumentare l’impatto dell’industria. Come fare? Ci vogliono pionieri che abbiano voglia di esplorare terreni sconosciuti.

Così, almeno per adesso, quegli abiti restano lì, nei corridoi dei magazzini che li ospitano, testimoni silenziosi di un sistema che non funziona: produrre di più per vendere di più non è una formula corretta, mentre il mito della crescita continua sta vacillando.

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