Maxi sequestro da 121 milioni per frode fiscale a carico della filiale italiana della multinazionale. Una rete di finti fornitori con centinaia di lavoratori in realtà alle dipendenze dirette del colosso
È l’algoritmo che comanda. Decide il quando, il come e il dove delle consegne. E lo fa per conto di centinaia e centinaia di lavoratori formalmente indipendenti tra loro e dai magazzini centrali. In realtà tutto dipende da una holding ombrello che in questo modo, oltre a tagliare i tempi di lavorazione, risparmia milioni su tasse e contributi, moltiplicando i profitti aziendali.
Queste le accuse della procura di Milano contro la filiale italiana del gruppo Amazon. Un’inchiesta penale per frode fiscale che ha scoperchiato un pentolone di presunti illeciti da parte di decine di aziende e ieri ha portato al sequestro di 121 milioni a carico della multinazionale.
Le accuse
Le 94 pagine del decreto firmato dai sostituti procuratori Valentina Mondovì e Paolo Storari descrivono un sistema definito di “caporalato digitale”, un sistema in cui i contratti di appalto con le imprese fornitrici servono a nascondere, secondo l’ipotesi investigativa, il controllo diretto dei corrieri che materialmente eseguivano le consegne per conto di Amazon Italia Transport, la società oggi indagata. Consegne rapidissime, quindi, grazie a un esercito di corrieri alle dipendenze di società dalla vita breve che si passano i dipendenti tra loro. E profitti in crescita costante perché al Fisco andavano le briciole di quanto effettivamente dovuto.
Lo schema è simile a quello già emerso da altre recenti inchieste della procura di Milano che negli ultimi anni ha indagato su colossi alimentari, della grande distribuzione e della logistica del calibro, per citarne alcuni, di Dhl, Ups, Esselunga, Salumificio Beretta, recuperando imposte evase per 480 milioni di euro. Nella ricostruzione dei magistrati, anche in questo caso Amazon si è servita di quello che viene definito un “serbatoio di manodopera” formalmente alle dipendenze di cooperative, consorzi o società di capitali. Decine di imprese prive di qualunque autonomia gestionale, perché a comandare, in tutto e per tutto, era la filiale della multinazionale Usa. Di conseguenza, erano fittizie anche le fatture emesse da questi fornitori, visto che riguardavano prestazioni inesistenti.
Aziende filtro
Questo «meccanismo fraudolento» aveva al suo apice Amazon Transport, in grado quindi di «agire sul mercato con mezzi competitivi» anche grazie all’ingente «risparmio in termini di carico fiscale». Gli investigatori della Guardia di finanza hanno ricostruito nei particolari il funzionamento della macchina organizzativa del gruppo americano, che esercita un controllo diretto di tutta l’attività di trasporto fino al cosiddetto “ultimo miglio”, quello che porta i pacchi dal magazzino periferico fino alla destinazione finale, alle nostre case.
È lo stesso sito internet di Amazon a descrivere il Dsp Prorgram, acronimo che sta per Delivery Service Partner Program, con cui la multinazionale arruola imprenditori «che vogliano avviare la propria impresa e diventare fornitori di consegne di ultimo miglio». Basta una somma relativamente limitata, tra i 10 e i 25 mila euro, per avviare un’azienda che da subito può mettersi al lavoro per conto di Amazon. Quest’ultima promette di mettere a disposizione dell’impresa partner «tutti gli strumenti e la tecnologia necessaria». In realtà, secondo l’atto d’accusa dei magistrati, i contratti d’appalto servono solo a dissimulare «rapporti di illecita somministrazione di manodopera».
La rete di imprese al servizio della multinazionale del commercio online non ha nessuna autonomia gestionale. E del resto sarebbe impossibile il contrario visto che i lavoratori addetti alle consegne possono interloquire solo con un software di proprietà Amazon, con cui vengono impartite le istruzioni per la gestione dei pacchi. Insomma, tutto dipende da un sistema in cui la singola azienda fornitrice diventa un semplice filtro, senza nessuna «autonoma assunzione del rischio imprenditoriale».
Truffe sull’Iva
Amazon ci guadagna in efficienza, perché riesce a tenere facilmente sotto controllo migliaia di dipendenti che formalmente fanno capo ad altri. D’altra parte, la Guardia di finanza ha accertato a carico delle aziende fornitrici una serie di infrazioni fiscali che vanno dalla compensazione di crediti inesistenti agli omessi versamenti dell’Iva. Il beneficiario ultimo di queste presunte irregolarità è ancora Amazon, al vertice di quella che viene definita una «struttura complessa a carattere piramidale».
L’elenco delle violazioni contestate alle imprese partner della multinazionale è sterminato e si allarga a quelli che vengono definiti «fornitori di secondo livello» perché a loro volta sono al servizio delle aziende più grandi che hanno un rapporto diretto con Amazon. In una nota la società americana si dichiara pronta a continuare la collaborazione con le autorità e afferma di operare sulla base di standard elevati «sia per noi sia per i nostri fornitori».
Proprio tra i fornitori, in una galassia che comprende decine di sigle, spiccano alcune aziende che vantano un giro d’affari annuale di decine di milioni. La più grande tra quelle segnalate nelle carte d’indagine è la Salerno Trasporti, con sede nell’omonima città campana, che tra il 2017 e il 2023 ha emesso fatture per un totale di 111 milioni verso Amazon Italia Transport.
Secondo i magistrati, per ridurre la propria posizione Iva, negli anni scorsi Salerno Trasporti si è avvalsa di «metodologie fraudolente». Tra il novembre 2022 e il maggio 2023 ha anche comprato crediti da bonus edilizi per 32 milioni da usare in compensazione di propri debiti Iva. Crediti che però, alla luce degli accertamenti della Guardia di finanza, sono risultati falsi.
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