- Quando Tesla, nel novembre del 2019, annunciò che avrebbe aperto una fabbrica di auto elettriche in Germania, la scelta sembrò a molti una delle solite idee balzane di Elon Musk, un guanto di sfida gettato in faccia ai rivali tedeschi.
- A due anni e mezzo di distanza l’operazione si è rivelata un successo e ha confermato che nell’attrarre investimenti dall’estero, Berlino ha una marcia in più. L’ultima notizia è della settimana scorsa: l’azienda cinese Svolt ha annunciato piani per fabbricare celle per batterie in Germania; sempre in Brandeburgo,
- Ma non solo. Persino Marelli, ora americana, ha scelto la Germania. Cosa spinge americani e cinesi a investire oltre le Alpi, e cosa può fare un paese come l’Italia?
Quando Tesla, nel novembre del 2019, annunciò che avrebbe aperto una fabbrica di auto elettriche in Germania, la scelta sembrò a molti una delle solite idee balzane di Elon Musk, un guanto di sfida gettato in faccia ai rivali tedeschi. A due anni e mezzo di distanza, dopo che dalla fabbrica sono uscite le prime Tesla Model Y per i clienti europei, l’operazione si è rivelata un successo e ha confermato che, nell’attrarre investimenti dall’estero, Berlino ha una marcia in più.
L’ultima notizia è della settimana scorsa: l’azienda cinese Svolt ha annunciato piani per fabbricare celle per batterie in Germania; l’impianto dovrebbe sorgere nel land del Brandeburgo, lo stesso dove ha sede la gigafactory di Tesla. Cosa spinge americani e cinesi a investire in Germania, e cosa può fare un paese come l’Italia?
Decimo posto
Secondo il rapporto 2022 del Financial Times sui flussi di investimenti esteri, nel 2021 la Germania ha attratto poco meno di mille investimenti – numero uno in Europa alla pari con il Regno Unito – per un totale di poco meno di 20 miliardi di euro. In termini monetari è terza in Europa dopo i 43 miliardi affluiti al Regno Unito e i 26,6 della Spagna; l’Italia si è piazzata al decimo posto con 6,3 miliardi. I flussi sembrano destinati a proseguire nei prossimi anni.
Nel marzo scorso Intel ha annunciato investimenti fino a 33 miliardi di dollari per produrre semiconduttori in Europa. Di questa somma oltre metà, 17 miliardi, andrà a due grandi fabbriche a tecnologia avanzata a Magdeburgo, in Germania, mentre 4,5 miliardi potrebbero essere investiti in Italia per una nuova fabbrica di chip per la quale «i negoziati con il governo sono in corso». Il gruppo Northvolt, uno dei maggiori produttori europei indipendenti di batterie, aggiungerà alle sue due fabbriche in Svezia una terza nel nord della Germania.
Marelli in Germania
La stessa Marelli, ceduta tre anni fa da Fca al fondo americano Kkr, ha aperto l’anno scorso uno stabilimento di produzione per motori e trasmissioni elettriche a Colonia, in Germania. La spiegazione? «Abbiamo scelto Colonia per la sua posizione nel cuore dell'Europa, poiché qui troviamo dipendenti altamente qualificati con esperienza nel settore automobilistico e poiché la regione si sta trasformando in un centro per la mobilità elettrica». Anche per Intel la Germania, «al centro dell’Europa, dotata dei migliori talenti, con un’ottima infrastruttura e un ecosistema di fornitori e clienti, è il posto ideale per creare un nuovo hub a tecnologia avanzata».
Per Gianmarco Giorda, direttore generale dell’associazione della filiera autoveicolistica Anfia, «le dimensioni del mercato tedesco e la sua centralità geografica giocano sicuramente un ruolo. Per gli investitori extraeuropei sono molto importanti anche la stabilità delle regole e una burocrazia non troppo complessa, due fattori su cui l’Italia non ha purtroppo colmato uno svantaggio che dura da decenni». L’attrattività della Germania è ancora maggiore se si guarda all’industria dell’auto, in particolare nel passaggio alla mobilità elettrica.
La filiera autoveicolistica ha in Germania dimensioni non paragonabili a nessun altro paese europeo: nel 2021 ha prodotto (dati Acea) quasi 3 milioni di auto sui circa 10 milioni totali della Ue; la produzione di auto e camion dà lavoro a oltre 900mila persone su un totale Ue di 2,6 milioni, contro le circa 170mila dell’Italia. Ciò comporta una base di aziende e di competenze ampia e diversificata. Non è un caso che le aziende tedesche siano i principali clienti anche per l’export di componenti per auto prodotti in Italia.
La Germania, nel cuore geografico dell’Europa, ha un evidente vantaggio logistico. Una sorta di “rendita di posizione” più accentuata nel campo della mobilità elettrica: non solo Berlino è già più avanti sull’elettrico, con una quota di vendite di auto a batterie superiore al 10 per cento contro il 3-4 per cento dell’Italia; è anche geograficamente più vicina ai paesi dove la mobilità a emissioni zero ha attecchito più rapidamente, come Norvegia, Svezia, Olanda, Svizzera. Le case tedesche hanno investito tutte molto sulle nuove tecnologie, da Volkswagen a Bmw a Mercedes Benz, e dispongono di gamme di prodotti diversificate. L’Italia, grazie alle scelte strategiche della gestione Marchionne in Fiat-Fca, ha accumulato un forte ritardo che ora sta cercando di recuperare dopo la fusione in Stellantis.
I fattori che contano davvero
Tutti questi vantaggi sono più che sufficienti alla Germania per compensare un costo del lavoro più elevato, tanto più che il fattore lavoro pesa al massimo per il 10 per cento sul costo finale di un’automobile. Gli incentivi pubblici non sono determinanti. Da un lato, all’interno della Ue sono vincolati da un quadro normativo; dall’altro, rappresentano ormai un “chip” inevitabile da mettere sul piatto per poter competere.
Un esempio: Stellantis ha annunciato che creerà, tramite la joint venture Acc, tre fabbriche di batterie in Germania, Francia e Italia. Acc riceverà complessivamente 1,3 miliardi da Germania, Francia e Ue per i primi due investimenti; l’Italia contribuirà al terzo – la ristrutturazione della fabbrica ex Fca di motori di Termoli – con una cifra stimata in 370 milioni di euro. Per ora nel nostro paese l’unico investimento concreto di grandi dimensioni è proprio quello annunciato da Stellantis nelle batterie, che vedrà la riconversione della fabbrica di motori di Termoli a partire dal 2024.
Martedì a Torino Carlos Tavares, amministratore delegato, ha promesso per Mirafiori la produzione di cambi per vetture ibride su cui non sono state fornite valutazioni di impatto occupazionale e l’avvio di un «hub per l’economia circolare», comprendente rigenerazione di componenti, ricondizionamento e smantellamento di veicoli, che a regime dovrebbe impiegare 550 lavoratori. Senza includere il riciclo di batterie, suggerito dai sindacati.
Uno dei problemi è che in Italia si producono poche automobili. Il calo della produzione è una delle cause principali dell’esodo di aziende straniere che avevano investito qui. Guardando al futuro e nel caso specifico delle batterie, 400-500mila auto prodotte l’anno si possono tranquillamente rifornire con due fabbriche al massimo. È difficile poi immaginare che qualcuno venga a produrre batterie in Italia con un costo dell’energia più elevato della media Ue per esportarle nel resto d’Europa.
Il fantomatico progetto di Italvolt, azienda che vorrebbe creare una di queste gigafabbriche nell’ex Olivetti di Scarmagno, non ha partner solidi alle spalle; il promotore, lo svedese Lars Carlstrom, è impegnato nel solito balletto di richieste di fondi alle autorità. Il problema più grosso, per lui come per altri, è che se non hai già alle spalle chi ti compra le batterie, non parti neppure, o rischi di fermarti subito. Più possibilità ci sono nei motori elettrici e in altri componenti, a partire dai semiconduttori. L’italo-francese STMicroelectronics sta investendo per aumentare la produzione di chip per l’auto nei suoi impianti in Lombardia e in Sicilia.
Salvagente cinese?
Secondo Giorda «governo e filiera dovrebbero contattare in anticipo potenziali investitori, per evitare di arrivare quando le decisioni sono già state prese. Un esempio possibile per il prossimo futuro sono le aziende automobilistiche cinesi come BYD, Nio, Xpeng, Lucid, che prima o poi avranno bisogno di una base produttiva in Europa».
Su questo fronte, però, c’è da registrare una falsa partenza: il progetto di una fabbrica di “supercar” elettriche sulla via Emilia, promosso dalla americana Silk Ev con l’appoggio del gruppo cinese Faw, sembra morto ancor prima della posa della prima pietra, fra i problemi finanziari di Silk Ev e l’apparente disimpegno cinese.
I precedenti non sono incoraggianti: dopo la chiusura di Termini Imerese, oltre dieci anni fa, circolarono voci di sbarchi stranieri per produrre auto elettriche in Sicilia. Le voci si dimostrarono infondate; la patata bollente passò nelle mani della finanziaria Blutec, poi fallita, e gli operai rimasti sono ancora in cassa integrazione.
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