Sebbene in tutti gli stati europei le politiche del lavoro degli ultimi 30 anni abbiano lo stesso segno (contenuto), la distribuzione del reddito primario, cioè il reddito prima delle imposte e dei contributi – questi ultimi finanziano la previdenza e le diverse forme di sostegno al reddito tipo cassa integrazione – registra delle differenze che richiamano la specializzazione produttiva e la contrattazione collettiva nazionale dei sindacati categoriali.

Inoltre, è bene ricordare che le imposte sono direttamente proporzionali al reddito disponibile e agli scaglioni di riferimento, così come è bene ricordare che lo stato sociale nazionale è finanziato attraverso le imposte per i servizi universalistici, scuola e sanità per intenderci, e contributi dei lavoratori e dei datori di lavoro a sostegno del cosiddetto welfare lavoristico.

In altri termini, il cuneo fiscale nazionale, sebbene non sia il più alto tra i paesi europei, concorre a sostenere un particolare tipo di stato sociale che diversamente, qualora si volesse ridurre il carico contributivo, dovrebbe essere compensato da altre imposte e/o tasse.

Fatta questa necessaria premessa per chiarire un po' a tutti gli interlocutori sociali e politici gli effetti macroeconomici e di resilienza della finanza pubblica di una riduzione del cuneo fiscale, al netto del nuovo Patto di stabilità europeo, il livello del reddito da lavoro italiano rimane molto distante dalla media dei paesi considerati.

Partendo da un prezioso articolo apparso su Moneta e credito, “Dimensione e struttura dei contratti collettivi nazionali di lavoro”, possiamo indagare sia la distribuzione del reddito da lavoro dipendente sia la contrattazione collettiva nazionale categoriale dei sindacati più rappresentativi.

Quota salariale

Per indagare la distribuzione del reddito nazionale è necessario fare una comparazione tra paesi omogenei in termini di politiche sul lavoro e di politica economica. I paesi considerati sono Italia, Francia, Germania e Spagna, i quali rappresentano quasi l’80 per cento del Pil dell’area euro. L’Italia manifesta una forte diminuzione della quota salariale sul valore aggiunto a partire dalla metà degli anni Settanta (50,4 per cento nel 1975), fino all’inizio degli anni Duemila (41,1 per cento nel 2001).

Soltanto dal 2002 si registra una debole ripresa di tale quota, che torna a livelli simili a quelli dell’inizio degli anni Novanta (44,8 per cento nel 2019). Questa tendenza, sebbene a livelli più alti, si registra anche negli altri paesi considerati: nel 2019 la quota salariale sul rispettivo valore aggiunto di ogni paese è pari al 50,8 per cento in Spagna, al 57,3 per cento in Germania e al 58,2 per cento in Francia, mentre la quota di profitto sul valore aggiunto passa dal 21 per cento del 1975 al 35 per cento del valore aggiunto nel 2019.

Prima di addentrarci nella dinamica e struttura dei Ccnl è necessario analizzare il reddito da lavoro settoriale rispetto al valore aggiunto nazionale tra il 1990 e il 2019, escludendo i settori pubblici, sostanzialmente regolati da proprie norme contrattuali; in alcuni settori la quota dei salari nella distribuzione del reddito primario raggiunge livelli più elevati: manifattura (56,8 per cento), approvvigionamento idrico, fognature, gestione dei rifiuti e attività di bonifica (58,3 per cento), costruzioni (45,9 per cento), trasporto e stoccaggio (46 per cento), servizi di alloggio e ristorazione (46,4 per cento), attività finanziaria e assicurativa (44,7 per cento), attività amministrative e di servizi di supporto (58,4 per cento).

In qualche misura si osserva una relazione positiva tra numero di lavoratori coinvolti e valore aggiunto contrattato: tanto più grande è il valore aggiunto e il numero di lavoratori coinvolti, tanto più alto è il reddito da lavoro dipendente sul valore aggiunto.

Potere ai sindacati

La classificazione dei contratti collettivi nazionali per settore è problematica; con il passare degli anni i Ccnl sono sempre meno allineati alla nomenclatura Ateco-Nace e sono aumentati in misura eccessiva, non realizzando una classificazione omogenea a livello europeo, la quale consentirebbe efficaci analisi comparative e una più idonea integrazione all’interno dell’Unione.

In generale, la media dei lavoratori coinvolti per Ccnl sottoscritto da Cgil-Cisl-Uil è pari a 63.937 addetti; 38 Ccnl superano questa soglia, mentre 168 restano al di sotto. In particolare, i primi 38 contratti collettivi coinvolgono 11.629.156 lavoratori (pari all’83,7 per cento del totale), mentre i restanti 168 contratti rappresentano 2.270.100 addetti (pari al 16,3 per cento del totale).

Analizzando la serie storica dei Ccnl, è facile osservare che nel tempo la crescita del numero dei Ccnl ha ridotto sia il numero di lavoratori per ogni contratto sia il valore aggiunto sotteso alle rivendicazioni dei sindacati, in particolare di Cgil-Cisl-Uil; infatti, la crescita del numero dei Ccnl, non è legata solo ai cosiddetti contratti pirata: gli accordi sottoscritti dalle principali organizzazioni sindacali registrano un aumento continuo e progressivo.

Attualmente tali contratti sono oltre 200, riducendo così il potere contrattuale di ciascun Ccnl, sebbene nel complesso la rappresentanza sindacale di Cgil-Cisl-Uil sia notevole, coinvolgendo poco più di 14 milioni di lavoratori, pari al 96 per cento dei lavoratori coinvolti dai Ccnl. La polverizzazione dei Ccnl ha indebolito la rappresentanza sindacale e frammentato l’impatto di ogni contratto nazionale di settore.

Scopo di queste riflessioni è mostrare l’importanza di riscrivere la matrice dei contratti nazionali alla luce di due criteri: un numero adeguato di lavoratori per contratto e valore aggiunto sottostante ogni contratto. Infatti, è importante costruire un benchmark quali-quantitativo per ridurre il numero dei contratti collettivi nazionali di lavoro in Italia, in modo da restituire ai sindacati la forza contrattuale necessaria per adempiere al ruolo di «autorità salariale».

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