Il concordato preventivo biennale, parte della nuova riforma del fisco, bloccherà la base imponibile su cui pagare le tasse. Ne beneficeranno autonomi, partite Iva e piccole imprese. Il governo spera di far emergere il sommerso, ma per l’opposizione è «un regalo agli evasori»
Un accordo per far uscire «gradualmente le partite Iva dal mondo della non correttezza tributaria», ma che sembra accettare l’evasione anziché combatterla. È il nuovo concordato preventivo biennale per autonomi e piccole imprese, varato il 25 gennaio dal Consiglio dei ministri. Una misura che si rivolge a una platea di oltre 4 milioni di contribuenti, a cui consente di bloccare per due anni la base imponibile su cui pagare le imposte.
Il decreto legislativo, che attua uno dei punti fondamentali della legge delega di riforma del fisco voluta dal governo, interessa le partite Iva soggette agli Indici sintetici di affidabilità fiscale (Isa) e quelle che hanno aderito al regime forfettario con la flat tax al 15 per cento. A questi contribuenti l’Agenzia delle entrate formulerà una proposta sulle imposte da versare nel biennio, sulla base dei dati già in suo possesso (dichiarazioni pregresse e fatturazione elettronica).
Come funziona il concordato
Il concordato preventivo si basa su un accordo tra lo stato da una parte e lavoratori autonomi (o piccole imprese) dall’altra. Partendo dai ricavi passati e da altri dati sull’attività d’impresa contenuti nelle banche dati pubbliche, il Fisco proporrà a queste categorie di contribuenti un importo fisso di tasse da pagare per i successivi due anni, sulla base di una simulazione del reddito futuro.
Per le partite Iva ci sarà un doppio vantaggio ma anche un rischio. In quei due anni non subiranno grossi accertamenti e avranno la possibilità – se lavorano e guadagnano di più – di tenersi tutto il reddito aggiuntivo esentasse. «Ma se per caso fattureranno meno di quanto l’accordo sottintende, dovranno comunque pagare la cifra concordata», fa notare Luigi Marattin, deputato di Italia viva.
L’Agenzia, al momento di proporre al contribuente la cifra da pagare, potrà calcolare un eventuale incremento del reddito rispetto a quello dell’anno di riferimento, «fatta salva la facoltà di una proposta difforme motivata e sottoposta a contraddittorio con il contribuente prima di essere formalizzata».
Tempistiche e accertamenti
A partire dal 15 giugno, il software dell’Agenzia delle entrate renderà disponibile alle partite Iva potenzialmente interessate la proposta elaborata, cioè l’ammontare delle imposte da versare. A quel punto si avranno quattro mesi di tempo, fino al 15 ottobre, per decidere se aderire o meno; in caso di adesione, entro il 30 novembre 2024 occorrerà versare il saldo delle imposte 2024.
Nel biennio di validità dell’accordo il contribuente sarà al riparo da accertamenti fiscali, salvo per fatti gravi che determinino la decadenza dal regime del concordato. Se il Fisco dovesse scoprire che il contribuente ha omesso di dichiarare più del 30 per cento delle entrate, questi decadrà dall’accordo. Inoltre, se il giro d’affari dovesse andare molto peggio del previsto (con un crollo del 60 per cento del fatturato) il contribuente potrà uscire dal patto.
Una platea più ampia
Il concordato interessa oltre 4 milioni di partite Iva (2,42 milioni di soggetti sottoposti agli Indici sintetici di affidabilità e 1,7 milioni di forfettari). La maggiore novità, che accoglie i rilievi del parlamento, è l’ampliamento della platea: approvando una richiesta dei senatori di maggioranza in commissione Finanze, il governo ha consentito l’accesso alla misura e ai suoi benefici anche ai contribuenti con un Isa inferiore al livello di sufficienza, pari a 8.
Ma cos’è l’Isa? È un indice da 1 a 10 che, sulla base di una serie di indicatori, attribuisce un voto di affidabilità fiscale a imprenditori e lavoratori autonomi. Dall’8 in su il contribuente è considerato “affidabile”, mentre voti più bassi segnalano anomalie che possono nascondere evasione o meccanismi elusivi delle tasse.
Dalla possibilità di concordato resteranno comunque esclusi i contribuenti con un debito tributario superiore ai 5mila euro, oltre a quelli condannati per false comunicazioni sociali, riciclaggio o autoriciclaggio (se commessi nei tre anni precedenti). Risultano esclusi dal patto anche quanti non hanno inviato dichiarazione dei redditi in uno dei tre anni di imposta precedenti.
Un fisco amico?
Nell’ottica del governo, la soglia dell’affidabilità fiscale minima di 8 avrebbe limitato la portata del provvedimento – tagliando fuori dal nuovo regime il 56 per cento degli autonomi – dato che per i contribuenti più affidabili l’offerta del Fisco sarà in linea con quanto già pagano di tasse. L’appeal della misura sarebbe quindi stato limitato. Adesso invece verranno ammessi tutti, nella speranza che la linea del “dialogo” porti a un aumento della base imponibile e del gettito.
«È forse l’ultimo tentativo di intercettare situazioni di evasione diffusa. Negli anni si è provato a ricostruire il reddito delle partite Iva tramite strumenti statistici, un meccanismo che è sfociato negli studi di settore e poi è fallito per volere della Cassazione», nota il tributarista Giuseppe Melis. «Ora si passa a una formula di accertamento che coinvolge il soggetto e gli fa percepire la vicinanza dell’amministrazione finanziaria». Secondo Melis, che è uno dei padri della riforma fiscale, si tratta di «uno strumento partecipato che vedo come ultima spiaggia nella lotta all’evasione».
La misura, del resto, si inserisce nella riforma con cui il viceministro dell’Economia, Maurizio Leo, intende «dare al Fisco un volto più amico e instaurare un rapporto collaborativo tra Agenzia e contribuente». Per questo, Leo ha respinto la tesi secondo cui il concordato sarebbe un nuovo condono. Per giustificare le modifiche ha ricordato che, a causa della «carente capacità operativa del Fisco», solo il 5 per cento delle partite Iva riceve un controllo annuale: dato che gli evasori parziali non sono intercettati, tanto vale coinvolgerli nel concordato e «indurli a far gradualmente emergere il sommerso».
Un altro condono?
È proprio questa logica, secondo le opposizioni, a rappresentare «una resa indecorosa nei confronti dell’evasione». Prima di tutto in linea di principio. Per Maria Cecilia Guerra, responsabile Lavoro del Pd, «il governo ammette che l’Agenzia delle entrate non ha capacità operativa sufficiente per fare i controlli. E allora cosa fa? Prende per buono ciò che gli evasori dichiarano e prova a chiedere loro qualcosa in più». Così facendo, lamentano anche M5s e Cgil, si “cristallizza” e si legittima l’evasione da parte delle partite Iva, spingendo all’inaffidabilità pure i contribuenti affidabili.
Qualche dubbio sulla nuova norma, ma per motivi diversi, li esprime Tommaso Di Tanno, professore di diritto tributario all’Università Luiss: «Si propone al contribuente di pagare le tasse su un reddito un po’ più alto rispetto a quello dichiarato in passato, dando per scontato che fosse sottovalutato, e in cambio gli si promettono maggiori certezze. Ma l’impianto generale non mi dispiace, è un approccio innovativo con pregi e difetti. Devo dire che non mi sembra un condono».
Secondo Di Tanno, il punto più debole della misura riguarda i criteri in base ai quali l’Agenzia proporrà l’importo di tasse da pagare. E cioè affidandosi a dichiarazioni pregresse e altri dati in suo possesso: «Sono informazioni insufficienti che possono essere false, dato che questi contribuenti tendono a nascondere una parte di reddito. Il Fisco non dovrebbe limitarsi a controlli formali: si muova per verificare il tenore di vita delle partite Iva». Per fare questo, però, servono azioni mirate sul campo, tanto efficaci quanto dispendiose. Economicamente e, forse, anche politicamente.
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