Il governo in cerca di 20 miliardi per mantenere le promesse elettorali. Aumentano le pressioni dei partiti su Giorgetti. Il rischio di nuovi tagli
Dopo le ferie forzate della campagna elettorale, con la consueta abbuffata di slogan e propaganda, riapre in questi giorni il grande cantiere italiano dei conti pubblici. L’impalcatura di partenza, alquanto pericolante, non autorizza grandi speranze. Scarseggia il cemento, cioè i soldi. E anche sul capomastro sono tornate circolare voci e ipotesi di ogni tipo.
Giancarlo Giorgetti, il ministro dell’Economia chiamato a dirigere i lavori, teme di ritrovarsi in balia di apprendisti stregoni, molto numerosi nei partiti della maggioranza, ognuno portatore di richieste e progetti destinati invariabilmente a mandare fuori giri la spesa pubblica. E così, per sottrarsi a mesi di battaglie, e conseguente logoramento d’immagine e di nervi, il leghista draghiano (o il draghiano leghista, scegliete voi) sarebbe pronto a farsi da parte lasciando ad altri l’ingrato compito di far tornare i conti.
Rotta incerta
Non è la prima volta che il ministro viene dato come prossimo all’uscita. Nel dicembre scorso, per dire, la bocciatura del Mes in Parlamento lo aveva costretto ad abbozzare con i colleghi di Bruxelles, che si aspettavano il via libera anche da Roma, come del resto era stato promesso a suo tempo. All’epoca Giorgetti rimase al suo posto, nonostante la palese sconfessione della sua linea e adesso a Roma molti si dicono pronti a scommettere che il passo indietro non arriverà neppure nelle prossime settimane, quando aumenteranno ancora le pressioni per orientare in un senso o nell’altro la rotta dei conti pubblici.
Del resto, solo un paio di mesi fa, il titolare del Mef è stato capace di fare muro anche di fronte all’assalto dei partiti che chiedevano nuove correzioni al decreto destinato a chiudere, salvo pochi circoscritti casi, il rubinetto del Superbonus. Va detto che la resistenza di Giorgetti è agevolata dal fatto che per il momento nessuno nei ranghi della maggioranza sembra pronto a fare a meno di lui. Se non altro perché non si vedono candidati pronti a bere l’amaro calice.
L’ipotesi di promuovere Maurizio Leo, il viceministro a cui è stato attribuito l’enfatico titolo di zar del fisco, non sembra trovare consensi fuori da una ristretta cerchia di parlamentari di Fratelli d’Italia, una cerchia molto romana ma non necessariamente meloniana. E reclutare un nuovo ministro con un profilo tecnico non cambierebbe granché la situazione: la convivenza rischierebbe di diventare complicata al pari di quella con Giorgetti. Senza contare che il ribaltone difficilmente contribuirebbe a migliorare i rapporti con Bruxelles, già scottata dalla vicenda del Mes. Tutto questo proprio mentre sta per entrare nel vivo il confronto con la Commissione sui conti di Roma.
Esami a Bruxelles
Sarà una volata lunghissima, destinata a concludersi in autunno con la bozza della manovra finanziaria per il 2025 da mandare a Bruxelles. Prima ancora, però, già a fine settembre, la Commissione dovrà esaminare il piano a medio termine con cui Roma, al pari degli altri governi dell’Unione, dovrà tracciare la rotta della spesa pubblica e la riduzione del debito.
Questo, in linea di massima, è il calendario delle scadenze europee, su cui però incombe il problema dei problemi: dove verranno recuperate le risorse per confermare le misure bandiera della maggioranza, cioè taglio del cuneo fiscale e riduzione delle aliquote Irpef, come promesso solennemente agli elettori l’anno scorso? Il costo del rinnovo delle due misure, destinate altrimenti a scadere a fine 2024, supera i 20 miliardi.
L’abrogazione dell’Ace (Aiuto alla crescita economica), una misura nata per favorire la ricapitalizzazione delle aziende, dovrebbe fruttare all’incirca 4 miliardi. Ne restano da trovare almeno una quindicina. Nei mesi scorsi il viceministro Leo aveva ipotizzato che risorse supplementari sarebbero arrivate grazie alla riforma fiscale. Si era parlato per esempio dei proventi, fino a 3 miliardi, della nuova imposta sulle multinazionali con oltre 750 milioni di ricavi annui. In realtà, le stesse tabelle dei tecnici del governo segnalano che il gettito sarà nell’ordine, al massimo, delle centinaia di milioni.
Più deficit
Anche per il cosiddetto concordato preventivo biennale fortemente voluto da Leo saranno necessarie correzioni che potrebbero ritardare l’applicazione di una misura che secondo il viceministro avrebbe parzialmente finanziato l’accorpamento delle aliquote Irpef. I due esempi citati confermano che il percorso vero la prossima manovra di bilancio si presenta più accidentato che mai. Il governo può puntare a finanziarsi facendo nuovo deficit, ma anche ammesso che Bruxelles apra a un’interpretazione più flessibile del nuovo Patto di stabilità, i margini di manovra restano comunque ristretti: si potranno racimolare una decina di miliardi in più.
Con questi chiari di luna sembrano destinate a finire nel nulla le pressioni della Lega per allargare le maglie della spesa pensionistica, magari confermando quota 103. Anzi, la prospettiva data come più probabile sembra quella di ulteriori interventi per arrivare a nuovi tagli modificando i meccanismi dell’indicizzazione degli assegni previdenziali.
A questo punto si capisce per quale motivo nella maggioranza di governo si puntino molte carte sul Pnrr, che dovrebbe stimolare la crescita del Pil e quindi alleggerire il peso del debito. Anche qui, però, le certezze non abbondano. L’agenzia di rating Moody’s, per esempio, a fine maggio ha smontato l’ottimismo del governo spiegando che gli investimenti finanziati dal Pnrr saranno «probabilmente insufficienti ad alzare materialmente il potenziale di crescita e a mettere il debito su una traiettoria di calo sostenuto».
In altre parole, sostiene Moody’s, la strada maestra resta quella della riduzione della spesa. Se solo a Roma sapessero da dove partire.
© Riproduzione riservata