Modificare qualche casella ministeriale significa ridiscutere i rapporti di forza con gli alleati. Così il capo del Mef ha smentito voci di addio e all’ex pm è stata affidata una riforma cruciale
Prima della chiusura della campagna elettorale, tutti i partiti hanno messo le mani avanti. «Forza Italia non chiederà il rimpasto», ha assicurato Antonio Tajani, pregustando il sorpasso della Lega. «Nessun rimpasto dopo le europee», ha chiosato Matteo Salvini, auspicando di arrivare alla doppia cifra. «Punto a tenere la stessa squadra per cinque anni», è stata la pietra tombale della premier, Giorgia Meloni.
Eppure da più parti le tentazioni di una rinfrescata alla rosa di ministri sono filtrate, anche perchè non tutti stanno portando a casa prestazioni memorabili. La lista è composita e spazia in tutti i partiti. In FdI quella più traballante è la ministra del Turismo, Daniela Santanchè, assillata dai problemi giudiziari di Milano ma ancora decisa a non dimettersi almeno fino a quando non arriverà il rinvio a giudizio. Anche il ministro dell’Ambiente di Forza Italia, Gilberto Pichetto Fratin è ormai da mesi considerato in bilico, finito in un cono d’ombra proprio sul tema su cui il governo si sta spendendo molto in ottica europea e anti-Socialista.
Lo stesso fonti di maggioranza continuano a ripetere anche del ministro della Pa, Alberto Zangrillo. Per la Lega, invece, ormai da mesi si rincorrono le notizie di un Giancarlo Giorgetti ormai esasperato e preoccupatissimo per la tenuta dei conti pubblici in vista della prossima legge di Bilancio, tanto da riferire a molti di essere pronto a dire addio al ministero dell’Economia.
Altro nome in bilico, almeno fino a qualche settimana fa, era quello del guardasigilli Carlo Nordio, da molti dato in via di sostituzione dal sottosegretario Alfredo Mantovano, che ormai spesso lo affianca come è stato anche per la presentazione al Colle della riforma costituzionale della magistratura. Al netto delle suggestioni, delle voci dai ministeri e dalle malignità di partito, contro il rimpasto operano almeno due fattori di cui Meloni è molto cosciente.
Il primo riguarda la tenuta della sua litigiosa maggioranza: muovere le caselle ministeriali significa mettere in discussione gli equilibri, riaprendo alle recriminazioni degli alleati e in particolare di Forza Italia, che già nella prima composizione di governo si era sentita sottostimata pur a fronte di una percentuale di poco inferiore a quella della Lega alle politiche del 2022.
La premier, che in questa fase ha ben altri crucci da affrontare, non avrebbe intenzione di tornare a sfogliare il manuale Cencelli per bilanciare i rapporti di forza, ben sapendo che le tensioni a bassa intensità dentro alla maggioranza – che ora possono essere smentite in modo sprezzante – rischierebbero di esplodere pubblicamente. In altre parole, toccare anche un solo ministero significherebbe provocare un potenziale effetto domino.
Il secondo fattore, ben più determinante, è quello giocato dal Quirinale. Meloni sa che un conto sarebbe la sostituzione di una singola ministra – Santanchè per esempio – per ragioni di opportunità, tutt’altro affare sarebbe invece quello di modificare in modo consistente la compagine ministeriale. In questo caso il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, chiederebbe un ritorno in Aula per la verifica della fiducia e dunque la nascita a tutti gli effetti di un governo Meloni bis. Esattamente quello che la premier vuole evitare: quando parla di un esecutivo che «durerà cinque anni», l’obiettivo è quello di battere ogni record di durata del singolo governo, senza versioni bis o tris.
Il blocco
Meglio non toccare nulla, allora: squadra che vince non si cambia, e il risultato delle europee non altera questo assunto.
Tutte le mosse delle ultime settimane, del resto, vanno in questa direzione. Le strategie di fuga di Giorgetti - ambirebbe a un posto da commissario europeo che però è fuori portata per la Lega – sono frenate da palazzo Chigi, che considera il ministro un tassello fondamentale per frenare lo stesso Salvini. Il titolare del Mef ha smentito ogni retroscena sulla sua voglia di lasciare via XX Settembre, ma più fonti concordano nel ripetere che non avrebbe nessuna remora a presentare le dimissioni, se venisse messo davanti a richieste irricevibili in vista della prossima Finanziaria. Giorgetti sa però altrettanto bene che, in questo momento, le occasioni per svincolarsi non esistono.
Un’indicazione del fatto che Meloni non abbia intenzione – almeno in conseguenza delle europee – di modificare l’assetto di governo è stata anche la scelta di cedere alle pressioni di Forza Italia e dare il via libera in consiglio dei ministri alla riforma costituzionale della magistratura, con Nordio come estensore. La riforma costringerà il governo sul terreno dello scontro con le toghe e darle finalmente il via libera è una blindatura a tutti gli effetti per il guardasigilli che (dopo molti annunci) ora ha un obiettivo di legislatura.
Certo Nordio non potrà procedere solo, vista anche la delicatezza della questione che investe anche il Quirinale in quanto presidente del Csm. Il tutoraggio è stato affidato a Mantovano, che lo accompagnerà in ogni passo di quello che si preannuncia come uno scontro campale con le toghe.
Questa è la situazione attuale. L’unica vera variabile, attualmente difficilmente calcolabile, riguarderà la composizione della commissione e dunque chi sarà il commissario designato dall’Italia. I pretendenti ci sono anche nella compagine di governo, uno su tutti il ministro che oggi gestisce la delega al Pnrr, Raffaele Fitto. Legatissimo alla premier, avrebbe le carte in regola per essere il suo uomo di fiducia Bruxelles, ma poi si aprirebbe il rebus di a chi consegnare la regia del Pnrr e dei miliardi ad esso collegati. Meloni ha detto che «un nome ce l’ho» e una delle ipotesi extra esecutivo è quello della direttrice del Dis, Elisabetta Belloni. Ma il problema si porrà una volta chiarita la formula politica della prossima commissione.
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