- Oltre i due terzi dei cittadini affermano di non fidarsi di nessuno, né delle imprese né delle banche. Un dato in crescita che è passato dal 65 per cento di fine 2020, al 69 per cento di fine 2022
- Per il 75 per cento dell’opinione pubblica, infatti, i cosiddetti “esperti” non comprendono affatto la vita e le esigenze delle persone comuni.
- Oltre 8 italiani su dieci accusano i capitani d’industria e i loro seguaci di essere esclusivamente attenti al profitto e poco interessati alle persone e al benessere comune (82 per cento).
I venti di crisi che soffiano per il globo non annunciano nulla di buono per l’Italia. Il periodo che si prepara non sembra gravido di buone notizie e ad appesantire il quadro nostrano c’è anche la profonda crisi in cui versa la classe dirigente.
Lo scollamento tra le élite (economiche, sociali, culturali e non solo politiche) e i cittadini si mantiene su tassi molto alti e l’apertura della forbice non accenna minimamente a diminuire. L’Italia porta sulle spalle un grosso fardello di sfiducia. Oltre i due terzi dei cittadini affermano di non fidarsi di nessuno, né delle imprese né delle banche. Un dato in crescita che è passato dal 65 per cento di fine 2020, al 69 per cento di fine 2022.
Maggiormente disillusi risultano l’universo femminile (74 per cento), i ceti popolari (80 per cento) e i residenti nelle Isole e nel Centro Italia (75 per cento). Al cuore di questa pesante zavorra di sfiducia c’è la convinzione che i soggetti dotati di maggiori risorse economiche e che svolgono ruoli importanti nella società sono completamente scollegati dal resto della realtà sociale italiana.
Per il 75 per cento dell’opinione pubblica, infatti, i cosiddetti “esperti” non comprendono affatto la vita e le esigenze delle persone comuni. Un sentimento di distacco che prolifera tra i ceti popolari (82 per cento) e nell’universo femminile (78 per cento).
A generare questi sentimenti di avversità e distacco ci sono molteplici fattori. Sotto accusa è, in primo luogo, il modello economico attuale, il neoliberismo imperante. Per la stragrande maggioranza del paese il neo liberismo contemporaneo è un frutto amaro per la società in quanto strutturato per “avvantaggiare esclusivamente i ricchi e i potenti” (81 per cento). Ne sono convinti sia il ceto medio sia i ceti medio bassi (85 per cento), ma anche gli over cinquanta (86 per cento). Non solo.
A finire nel mirino sono i principali protagonisti del neoliberismo contemporaneo: il mondo degli imprenditori e dei manager.
Oltre 8 italiani su dieci accusano i capitani d’industria e i loro seguaci di essere esclusivamente attenti al profitto e poco interessati alle persone e al benessere comune (82 per cento). Anche in questo caso i soggetti più critici verso il mondo imprenditoriale sono gli over cinquanta (87 per cento), i residenti nel Centro del paese e nelle Isole (87 per centro tra i primi e 88 tra i secondi), nonché gli appartenenti al ceto medio basso, ovvero a quella parte di popolazione che ha perso posizioni sociali e ha maggiormente avvertito la discesa delle proprie possibilità economiche e dei livelli di relativo benessere (87 per cento).
L’opinione sulla classe dirigente italiana, inoltre, è nettamente peggiorata nel corso degli ultimi dieci-quindici anni. L’epoca dei capitani coraggiosi sembra abbastanza lontana e i due terzi del paese (64 per cento) è convito che gli imprenditori del passato e le classi dirigenti di trenta anni fa fossero migliori di quelli di oggi. Ne sono certi, soprattutto, le persone più adulte, i baby boomers e gli uomini (67 per cento), i residenti nel centro Italia (71 per cento) e i ceti popolari (65 per cento).
Dati così alti di sfiducia nelle élite e nell’universo imprenditoriale hanno ricadute anche sui livelli di tensione sociale tra le masse popolari e la classe dirigente. Il 76 per cento degli italiani, infatti, ritiene plausibile che, nel prossimo futuro, ci siano forme di intensificazione dello scontro tra il popolo e le élite. Di questo ne sono abbastanza convinti i trenta-cinquantenni (77 per cento), i baby boomers (78 per cento), i residenti a Nordest (82 per cento), il ceto medio basso (80 per cento) e quello popolare (79 per cento). Fino ad oggi si è parlato di scollamento tra popolo e élite, ma un distacco così prolungato nel tempo porta alla luce un salto di qualità nella crisi delle classi dirigenti ed evidenzia il rischio che il divario diventi una malattia dai tratti incurabili.
Si tratta della perdurante cecità delle classi dirigenti nostrane di fronte ai segnali di sofferenza esistenziale, all’aumento delle disuguaglianze e alla caduta sociale che sta attraversando parte della società italiana. La spinta a privatizzare, la riduzione dei servizi di welfare a un mero conto profitti e perdite, la perseveranza con cui si persegue la precarizzazione del lavoro, l’esaltazione del successo di pochi nella fideistica presunzione che la ricchezza sgoccioli sui meno agiati, hanno portato le relazione tra l’opinione pubblica e le élite a uno dei punti più bassi registrati nel corso degli ultimi cinquant’anni. Una crisi che non è di consensi, di like sui social, ma di idee, di proposte, di progetto di Paese.
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