Mercoledì 9 febbraio c’è stato a palazzo Chigi un vertice sul futuro dell’industria dell’auto con i ministri dell’Economia, dello Sviluppo economico, delle Infrastrutture e della Transizione ecologica.

La transizione all’auto elettrica mette fuori mercato il cosiddetto automotive italiano, industria legata al motore a scoppio e quindi a componenti che tendono a sparire, a cominciare dal motore e dal cambio. C’è sotto una questione ancora più grossa: chi governa i tempi e i modi della transizione, la politica o il libero mercato? Colpisce che una riunione così delicata sia stata presieduta dal sottosegretario Roberto Garofoli.

Il presidente del Consiglio Mario Draghi era a Genova, impegnato in una visita al cantiere del cosiddetto Terzo valico, la nuova linea ferroviaria tra Genova e Milano che serve, parole del premier, «per velocizzare i collegamenti con il nord Italia e il resto d’Europa» e diventa simbolo di un’Italia che pensa al futuro.

Prigionieri del passato

L’episodio è in realtà simbolo di una cosa diversa e preoccupante. Imprese e sindacati chiedono al governo di progettare il futuro di decine di migliaia di lavoratori e di un settore che rappresenta il 20 per cento del prodotto interno lordo italiano. Ma il premier si occupa di tagliare nastri, gloriandosi di un’opera inutile varata 30 anni fa dall’ultimo governo Andreotti. Ci ritroviamo nel nostro passato immobile, la Prima Repubblica.

Sarà utile ricordare una storia che Draghi conosce benissimo, perché all’epoca era appena stato chiamato da Andreotti alla direzione generale del Tesoro, a beneficio di chi magari non era ancora nato. Nell’agosto del 1991 le Fs hanno hanno lanciato il progetto dell’alta velocità, il più grande appalto della storia d’Italia, assegnando la realizzazione delle nuove opere della cosiddetta T (Torino-Milano-Venezia e Milano- Napoli) direttamente, senza gara, a tre consorzi guidati da Iri ed Eni (pubbliche) e Fiat.

Raul Gardini, capo del gruppo Ferruzzi-Montedison, non aveva preso bene l’esclusione dalla greppia sulla quale i fortunati di allora continuano a campare dopo 30 anni. E siccome aveva appena pagato alla politica la maxi tangente Enimont (che sarebbe finita poco dopo al centro dell’inchiesta Mani pulite), era, per così dire, molto ascoltato. Così, per dare a Gardini la sua parte, è stata aggiunta all’operazione un’opera priva di senso trasportistico, l’alta velocità Genova-Milano.

Un investimento così assurdo che, a un certo punto, per convincere i contribuenti che non erano soldi buttati, si è passati dalla fantasia del treno superveloce per consentire spostamenti fulminei nel triangolo industriale alla bubbola della ferrovia che agevola il flusso di merci dal porto di Genova al nord Europa, mettendo la Superba in condizione di spezzare le reni ai porti di Rotterdam e Amburgo.

L’opera prevede la spesa di 7,4 miliardi di euro per fare nuovi 53 chilometri dei 150 della Genova-Milano, consentendo ai treni passeggeri di passare dalla attuale percorrenza di 90 minuti a quella di 60, traffico merci permettendo. Sappiamo da 30 anni che il Terzo valico è un’opera i cui costi superano i benefici, in termini economici.

In termini ambientali il sito del ministero delle Infrastrutture ci informa che con la “cura del ferro” (anche questo è uno slogan vecchio di 30 anni), spendendo una quarantina di miliardi per nuove ferrovie, tram, metropolitane e filobus otterremo una riduzione delle emissioni di CO2 pari a 2,3 milioni di tonnellate annue. Meno dell’1 per cento delle attuali emissioni di anidride carbonica in Italia.

L’immagine che ci restituisce la convulsa giornata di mercoledì scorso è quella di una classe dirigente inchiodata a schemi del passato, alla cieca fiducia nelle opere pubbliche in cemento armato come motore di sviluppo. Ma inchiodata anche, ed è la cosa più grave, alla propria incapacità di pensare il futuro con una visione a lungo termine.

È utile a questo punto riflettere su un comunicato con cui i costruttori di auto del continente hanno chiesto all’Unione europea di «intervenire con la creazione di strumenti comunitari di riconversione e di nuova formazione per le industrie minacciate dalla disoccupazione, con un riorientamento dei programmi comunitari nel settore della ricerca e sviluppo».

Bene, la frase che avete appena letto è stata scritta dall’industria dell’automotive esattamente 30 anni fa. Che cosa è accaduto nel frattempo? Niente. O meglio, nei troppo lunghi decenni di ubriacatura liberista i governi, e segnatamente quelli italiani di ogni colore politico, hanno lasciato che la politica industriale la facessero le industrie. In Italia la politica dell’auto l’ha fatta la Fiat.

Un giorno il numero uno Sergio Marchionne ha deciso che sull’auto elettrica non valeva la pena investire e ai sindacalisti che hanno provato a eccepire è stato ingiunto di tacere per non disturbare il manovratore. L’Italia si trova adesso ad aver perso il treno dell’auto elettrica mentre l’Europa ha deciso che nel 2035 dovrà cessare la produzione di auto con il motore a scoppio.

La Fiat non c’è più e il corposo settore della componentistica non sa dove sbattere la testa. Chiede al governo di fare qualcosa. Ma il governo, nel vertice presieduto dal sottosegretario, ha prodotto un orientamento singolare. L’idea è di accompagnare la transizione togliendo gli incentivi alle auto elettriche e rimettendoli sulle auto a combustione interna pulita, cioè con i motori euro 6, naturalmente con l’antica tecnica, in puro stile Prima Repubblica, di “trovare” il denaro necessario “nelle pieghe del bilancio”.

Stato o mercato?

Qui si pongono due domande. Una concreta: quanto fiato può avere questa strategia che guarda solo alle prossime elezioni politiche? Una più generale e di portata storica: in un mondo dove all’improvviso, sulla base dell’imperativo ineludibile di rispondere alla crisi climatica, è lo stato a fissare la data di chiusura del maggior settore industriale, quello dei veicoli con motore a scoppio, le forze del libero mercato esprimeranno la propria energia creativa? O avremo la diserzione degli imprenditori? A questioni di tale portata l’Italia sta rispondendo mettendo al centro del Pnrr, o Recovery plan che dir si voglia, la costruzione di nuove linee ferroviarie, cioè la danza della pioggia. Ci sono tutte le condizioni per essere un po’ preoccupati per il futuro che l’Italia sta apparecchiando per i suoi figli.

 

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