È stato firmato nella notte, dopo 14 ore di serrate trattative al ministero del lavoro e delle politiche sociali, tra sindacati, Acciaierie d’Italia e le cinque regioni interessate, l’accordo per la cassa integrazione negli stabilimenti ex Ilva di Genova, Novi Ligure e Taranto.

È stata così soddisfatta la richiesta presentata dalla nuova governance di Acciaierie d’Italia in amministrazione straordinaria vista la conclamata crisi produttiva che attraversa lo stabilimento di Taranto, collocato a monte dei processi produttivi degli altri due stabilimenti che fanno lavorazioni e commercializzazione di manufatti provenienti dal sito pugliese, l’ex Italsider. Dove oggi è in marcia un solo altoforno dei cinque già esistenti, restando fermi e in temporanea cessazione tutti gli altri.

Come si legge nelle dieci pagine del verbale, l’accordo prevede la cassa integrazione per un numero massimo di partenza di 4.050 lavoratori con un solo altoforno in marcia, di cui 3.500 a Taranto, 270 a Genova e 175 a Novi. E poi la sostanziale diminuzione con il tempo degli ammortizzatori sociali in base alla così detta risalita produttiva.

La ripartenza

A partire dal prossimo ottobre, quando è previsto il riavvio dell’altoforno 1, infatti, il numero dei lavoratori in cigs diminuirà, fino ad azzerarsi completamente nel marzo del 2026, per quando è previsto che saranno in marcia tre altiforni. Ai lavoratori, nel frattempo, per i prossimi due anni, l’azienda riconoscerà un’integrazione salariale pari ad assicurare il 70 per cento della retribuzione globale annua lorda, compresi premi di produzione e tredicesima.

Non solo. L’accordo prevede che il periodo di validità della cassa integrazione decorrerà in maniera retroattiva a partire dal marzo di quest’anno, e sarà rinnovabile per altri 12 mesi dopo un nuovo esame congiunto tra azienda e sindacati. Ma è sul tema dei mancati esuberi, cioè sulla salvaguardia occupazionale dei lavoratori della precedente amministrazione straordinaria, secondo quanto prevedeva il precedente accordo del 2018, che si registra oggi la soddisfazione dei rappresentanti dei lavoratori.

«L’accordo sottoscritto al ministero del Lavoro la notte scorsa garantisce i livelli occupazionali ed indica una nuova prospettiva industriale, con la ripartenza di tutti gli altiforni e tutti gli impianti entro il primo trimestre del 2026, propedeutica alla auspicata transizione verso i forni elettrici», racconta a Domani il segretario dei metalmeccanici di Uil, Rocco Palombella: «L’accordo ha una importante valenza politica perché conferma quello del 2018 con il rientro dei lavoratori, cosa che non prevedeva, invece, l’accordo sulla cassa integrazione proposto l’anno scorso da Arcelor Mittal, che infatti non sottoscrivemmo», conclude il sindacalista. Dello stesso avviso è Loris Scarpa, responsabile siderurgia di Fiom-Cgil, che dice a Domani: «Con questo accordo si riconsegna dignità e speranza ai lavoratori, ed ora ognuno faccia la sua parte per garantirla».

Il retroscena

Restano, però, diverse incognite sul futuro della siderurgia italiana, esplicitate appena due giorni fa durante un incontro a Palazzo Chigi dal commissario di Acciaierie d’Italia in amministrazione straordinaria Giancarlo Quaranta. Alla presenza del sottosegretario alla presidenza del consiglio, Alfredo Mantovano, e dei ministri Urso, Pichetto Fratin e Calderone, infatti, Quaranta ha detto che «abbiamo dovuto rivalutare il piano di ripartenza dopo aver constatato che le condizioni di alcuni impianti non consentivano una rapida risalita produttiva, se entro il 15 ottobre non riusciamo a completare l’installazione dei filtri a manica della centrale elettrica, (n.d.a. l’impianto che pulisce i gas di scarico degli altoforni producendo energia che alimenta gli impianti) la centrale dovrà essere fermata per una disposizione di legge legata a problemi ambientali, cioè alle emissioni». E poi ha aggiunto: «Faremo di tutto per riuscirci. Se non dovessimo riuscirci, non potremmo continuare a produrre e dovremmo fermare lo stabilimento».

Scenari

Il realismo del commissario stride in tutti i casi con l’entusiasmo del ministro Adolfo Urso, il quale nel corso della stessa riunione ha ribadito che «proseguono tutte le attività di ripristino produttivo, con tutte le manutenzioni previste».

E poi ha rivelato anche alcuni particolari del piano di vendita, e cioè che tra qualche giorno, alla fine di luglio, uscirà il bando, e al momento vi sono sei manifestazioni di interesse da parte delle imprese: Metinvest, Vulcan Steel, Steel Mont, Stelco, Sideralba e Marcegaglia.

Non solo. Altri particolari trapelati sono quelli relativi ai requisiti preferenziali che saranno inseriti nel bando: il prezzo di vendita, il piano industriale di lunga durata (numero di occupati previsti), l’affidabilità dell’azienda, l’impegno alla decarbonizzazione, la compensazione per le comunità locali. Al di là dell’ottimismo sul futuro, però, resta l’ulteriore incognita del rinnovo dell’autorizzazione integrata ambientale, che, considerando il livello di emissioni attuali, con la produzione auspicata a 8 milioni di tonnellate all’anno, non passerebbe il vaglio della valutazione del danno sanitario previsto dalla procedura.

Per i prossimi anni, infatti, Arpa e Asl hanno raccomandato al ministero dell’Ambiente «l’adozione di ulteriori misure finalizzate al contenimento dell’esposizione agli inquinanti», considerati i tassi di mortalità e i risultati della valutazione sanitaria sull’esposizione della popolazione. I tecnici regionali hanno indicato che «è indispensabile procedere a una riduzione dell’esposizione per ricondurre il rischio della popolazione residente all’interno di una soglia accettabile».

Ma per ora si parla soltanto di compensazione, per Taranto, zona di sacrificio sull’altare della produzione siderurgica nazionale.

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