C’è la storia di Rad Power Bikes, un’azienda di biciclette elettriche fondata a Seattle nel 2007, una delle più importanti del settore negli Stati Uniti. Prometteva di vendere e-bike a un prezzo accessibile per tutti, direttamente online. Ha raggiunto il record di fatturato durante la pandemia, quando sembrava che tutti volessero una bicicletta elettrica. In quel periodo, ha raccolto più di 300 milioni di finanziamenti. Terminato l’entusiasmo, è iniziata la crisi: nel giro di pochi anni, ha licenziato gran parte del personale, ha smesso di vendere in Europa e ha chiuso il negozio di New York.

C’è Tally, che prometteva un aiuto per gestire le carte di credito, ma che non ha ottenuto abbastanza finanziamenti. Mindstrong, una start up digitale di supporto per la salute mentale, che non è riuscita a sopravvivere. C’è Tessera, una piattaforma blockchain che sembrava dovesse guidare la rivoluzione degli Nft, ma che invece ha chiuso.

Caffeine, che doveva essere la nuova frontiera del live streaming, un’alternativa a Twitch, ma che ha chiuso per mancanza di utenti. Convoy, un’azienda di logistica che piaceva anche a Jeff Bezos, ma che non è sopravvissuta alla crisi dei trasporti. E poi ancora: Veev per le case prefabbricate, Fast e Bolt nell’e-commerce, Olive Ai nella salute digitale. E soprattutto WeWork, che voleva fornire a tutti degli uffici per il coworking, ha raggiunto una valutazione massima di 47 miliardi di dollari, ma qualche mese fa ha dichiarato bancarotta.

Il grande crollo

La storia di tutte queste aziende fallite, e di molte altre ancora, rende evidente una tendenza: il grande sogno americano delle start up è in crisi. A certificarlo c’è anche un report di Carta, un’azienda che offre consulenza nella raccolta di investimenti e che garantisce un servizio di analisi del mercato. Ha calcolato che nell’ultimo anno le start up statunitensi che hanno chiuso i battenti sono aumentate del 58 per cento.

Le difficoltà derivano soprattutto dalla mancanza di liquidità, dopo che si sono interrotti i massicci finanziamenti del capitale d’avventura. In altre parole, sembra che il grande boom di entusiasmo per il settore tecnologico che aveva sostenuto la ripresa dopo la pandemia, fra il 2021 e il 2022, sia finito. O quanto meno qualcosa nel panorama economico generale è cambiato, mettendo in pericolo, sempre secondo i calcoli di Carta, milioni di posti di lavoro.

L’eccezione artificiale

La grande novità è dunque la maggiore diffidenza degli investitori, i cosiddetti “venture capitalist”. Prima c’è stato il crollo della Silicon Valley bank, nella primavera del 2023: ovvero il più grande fallimento bancario negli Stati Uniti dai tempi della crisi del 2008, proprio nel paradiso delle start up. E poi, praticamente in contemporanea, il grande freno dell’inflazione, con il conseguente aumento dei tassi d’interesse.

Ma questo racconto non è completo se non si considera anche il contraltare. Ovvero, il generale entusiasmo per l’intelligenza artificiale, che praticamente da sola si è sta mangiando tutta la torta dei finanziamenti.

Anche questo è evidente dalle notizie che arrivano in questi giorni. Alcuni report hanno evidenziato un aumento dei cosiddetti “unicorni”, ovvero di start up che sono valutate almeno un miliardo di dollari. Ma hanno tutte una caratteristica in comune.

Nel gergo economico si chiamano “unicorni”, secondo una celebre definizione coniata nel 2013 dall’investitrice Aileen Lee, perché tagliano un traguardo così raro, che riesce solo a poche creature mitiche, come sono appunto gli unicorni.

Ebbene, mentre in passato c’erano unicorni di natura diversa nel settore sterminato della tecnologia, ora sembrano tutti legati all’intelligenza artificiale: fra gli altri, c’è xAI di Elon Musk, valutata 24 miliardi di dollari , e Moonshot AI, che ha raccolto oltre 1 miliardo di dollari.

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