La sentenza storica contro Google potrebbe essere la fine del monopolio. Ma per un vero cambiamento da sola non basta: servono novità radicali che influiscano sulle abitudini
Il mondo della tecnologia è stato attraversato da due terremoti negli ultimi giorni: il primo finanziario, con il crollo dei titoli a Wall Street, in uno dei lunedì più neri degli ultimi anni. Il secondo di tipo giudiziario: con un giudice, Amit Priyavadan Mehta, che ha dato ragione all’antitrust e ha certificato che Google è effettivamente un monopolioe ha agito contro i suoi potenziali concorrenti, acquisendo una posizione di assoluto vantaggio.
Cosa cambia davvero
Come si tradurrà tutto questo in pratica è presto per dirlo, perché occorrerà attendere che il giudice si pronunci su quello che Google dovrà fare per ripianare le violazioni delle leggi antitrust. E soprattutto si dovrà attendere che si celebri l’appello (potrebbe volerci anche più di un anno). Ma si può già supporre che in futuro potranno saltare alcuni accordi commerciali, che di fatto hanno permesso a Google di instaurare e difendere il proprio dominio.
È però difficile immaginare che questo andrà a vantaggio di qualche start up o che ci possa essere una ridistribuzione più equa delle quote di mercato fra una serie di altri attori del mondo tecnologico. Perché siamo comunque in un contesto di guerra fra grandi colossi del digitale e se è vero che nel mondo dei “motori di ricerca” Google ha un assoluto dominio, quello che potrebbe cambiare è che la torta possa essere divisa in più fette, ma i commensali al tavolo saranno più o meno sempre gli stessi.
Bing
Per intenderci, la prima a poter trarre vantaggio da questa situazione è Microsoft, che ha già un motore di ricerca, Bing, che è il più credibile concorrente di Google. La quota di mercato è ovviamente quella che si immagina per un monopolio. Secondo diverse rilevazioni, Google si aggira attorno al 90 per cento delle quote (la sentenza parla del 95 per cento delle ricerche da dispositivi mobili negli Stati Uniti nel 2020), Bing segue con il 3,72 per cento. Gli altri (come Yandex, Yahoo!, Baidu o DuckDuckGo) si devono accontentare delle briciole.
Nei mesi scorsi c’era già stato qualche timido segnale di cambiamento. Microsoft aveva migliorato la qualità delle ricerche, soprattutto grazie all’innesto dell’intelligenza artificiale di ChatGpt, ed era riuscita ad aumentare gli introiti pubblicitari del 3 per cento.
Ora, Google potrebbe essere costretta a rinunciare ad alcuni degli accordi commerciali che hanno contribuito a rinforzare il suo monopolio. Ad esempio, si parla di un accordo milionario con Apple, che garantisce a Google di essere il motore di ricerca predefinito in Safari e la scelta automatica per chi utilizza un Mac o un iPhone. Se il giudice dovesse far saltare l’accordo, come sembra aver ventilato già nella sentenza, Microsoft sarebbe pronta a subentrare. E Bing potrebbe guadagnare nuovi utenti e maggiori introiti pubblicitari.
Effetto domino
Tutto questo rappresenta un paradosso, visto che c’è un solo grande precedente, praticamente di un quarto di secolo fa. Anche allora un giudice aveva messo un freno al monopolio di un’azienda, ma in quel caso si trattava proprio di Microsoft. In sostanza, il giudice aveva impedito di rendere parte della sua tecnologia più aperta all’utilizzo dei concorrenti, vietando anche contratti troppo restrittivi in senso monopolistico. Mehta ha seguito più o meno le orme di quella sentenza storica, anche se ovviamente il contesto è nel frattempo completamente mutato.
Secondo il giudice, Google avrebbe ripetutamente violato le norme antitrust, finendo per svantaggiare i concorrenti, pur di salvare il proprio monopolio. La difesa sosteneva invece che il successo di Google derivasse da una tecnologia migliore, per esempio nell’utilizzo di algoritmi che sono in grado di restituire risultati più precisi, analizzando con precisione decine di miliardi di pagine web.
Ovviamente tutto questo è difficile da contestare, visto che il successo di Google è stato costruito grazie a questa superiorità tecnologica. Ma, secondo Mehta, il mercato è stato poi progressivamente drogato, per evitare che altri concorrenti riuscissero a presentarsi come una valida alternativa.
Il punto è ora capire se tutto questo possa rappresentare l’inizio di un effetto domino. In altre parole, Google rischia di essere solo la prima vittima di altre sentenze, che potrebbero nei prossimi mesi colpire altri colossi che stanno affrontando procedimenti simili, come Apple, Amazon e Meta. E Google stessa, che è accusata di aver violato le leggi antitrust anche per la sua tecnologia pubblicitaria.
Rebecca Haw Allensworth, professoressa di diritto alla Vanderbilt University ed esperta di questioni legate all’antitrust, ha detto al New York Times che questa sentenza potrebbe rappresentare un precedente che sarà preso da esempio da altri giudici. Solo così, con una catena di sentenza, si aprirebbe davvero la strada all’innovazione del futuro, costruita su basi più eque e con un cambiamento che sarebbe davvero strutturale.
Il monopolio in noi
Resta però da capire se basteranno le sentenze a rimodellare il mondo in cui noi tutti viviamo. Perché in effetti il monopolio ha una storia così lunga che ormai è diventato parte del modo in cui siamo abituati a utilizzare la tecnologia. Aprire alle possibilità di alternative rischia di non bastare.Serve un cambiamento più radicale e potrebbe arrivare semmai da due possibili fattori.
Il primo: l’innovazione tecnologica. OpenAi – l’azienda che ha ideato ChatGpt – la scorsa settimana ha annunciato SearchGpt, una nuova piattaforma che promette di rivoluzionare il modo in cui cerchiamo i contenuti, grazie all’intelligenza artificiale. Il secondo: un cambiamento generazionale. I ragazzi più giovani si sono già abituati a utilizzare i social network, e in particolare TikTok, come se fosse un motore di ricerca.
Per loro, il dominio di Google non è già un fatto scontato. E stanno sostituendo nuovi monopoli generazionali a quelli che finora avevano regnato incontrastati.
© Riproduzione riservata