Dopo l’ufficializzazione della sua candidatura al posto di Joe Biden, la vicepresidente si è circondata di esperti in arrivo dalla Silicon Valley. Scelte che hanno suscitato perplessità nei critici di big tech che finora hanno trovato una sponda politica proprio nel partito democratico
La piattaforma del Partito democratico è piuttosto severa con i colossi della tecnologia, sia dal punto di vista delle distorsioni del mercato e della concentrazione di potere, sia sui danni sociali e psicologici che i prodotti di Meta, Google e altri diffondono fra i più giovani. Si dice che le compagnie della Silicon Valley dovrebbero «rispondere dei danni che commettono», si citano i crimini di stalking, sfruttamento della prostituzione, pedopornografia su cui le piattaforme, nel migliore dei casi, non vigilano, si cita il rapporto del surgeon general – una specie di referente per la sanità pubblica – che mette in guardia sull’impatto dei social media sulla salute mentale, concludendo che «i social non sono sicuri per i bambini e gli adolescenti».
L’amministrazione, si legge sempre nella piattaforma del partito, ha «chiesto a democratici e repubblicani di approvare leggi bipartisan per promuovere la competizione e la privacy nell’industria tecnologica».
Queste posizioni sono frutto di una visione che l’amministrazione Biden ha portato avanti in questi anni, facendo anche scelte dirompenti, ad esempio mettendo a capo della Federal Trade Commission una feroce critica dello strapotere dei giganti della tecnologica come Lina Khan, che deve la sua fama a un decisivo studio su come Amazon ha conquistato una posizione dominante nel mercato distruggendo sistematicamente tutti i competitor.
Queste posizioni sono a loro volta frutta di un intenso lavoro di ridefinizione dell’agenda democratica fatto dall’ala sinistra del partito, in particolare da figure come Elizabeth Warren. E la battaglia per arginare big tech ha incontrato anche il favore di molti repubblicani, diventando uno dei rarissimi punti su cui oggi è possibile costruire un consenso trasversale.
Quello che non è chiaro è fino a che punto Kamala Harris condivida questa visione. Quando era procuratrice generale della California non ha mai messo la lotta ai conglomerati tecnologici fra le priorità della sua agenda, e ha parlato poco della questione da candidata alle primarie democratiche e poi nel ruolo di vicepresidente.
Alcune scelte fatte dopo l’ufficializzazione della sua candidatura alla presidenza al posto di Biden hanno destato perplessità fra i critici della Silicon Valley. Innanzitutto, Harris ha arruolato lo stratega obamiano David Plouffe nella sua campagna elettorale.
La decisione è stata ampiamente raccontata e apprezzata, perché Plouffe è stato uno dei prodigiosi artefici di una delle campagne politiche più importanti dell’epoca contemporanea, ma dopo l’esperienza con Obama Plouffe si è riciclato (come tanti altri consiglieri obamiani) nel settore tecnologico, lavorando per Uber, TikTok e altri attori della scena. Il consigliere più vicino a Harris, il cognato Tony West, ha preso un periodo di aspettativa da Uber per dedicarsi alla campagna elettorale, e prima di lavorare per un’azienda che si regge sul controllo del mercato e la lotta contro i diritti dei lavoratori, anche lui era stato un consigliere di Obama.
Fra i più grandi sostenitori di Harris c’è anche il co-fondatore di LinkedIn Reid Hoffmann, che ha criticato spesso la politica di Biden sul settore tecnologico e ha addirittura chiesto il licenziamento di Lina Khan, sostenendo che con le sue posizioni antimonopoliste sta «facendo la guerra» alle aziende americane. La piattaforma del partito promette di muoversi sul solco tracciato dall’amministrazione Biden. Ma non è chiaro se Harris e i tifosi di big tech di cui si è circondata siano davvero allineati.
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