Venti anni fa il settore dei media era caratterizzato dal “duopolio” Mediaset-Rai. La Rai, più che un’azienda, era un’estensione della politica, con i partiti che si spartivano canali, dirigenti e conduttori: perfino comici e opinionisti dovevano essere affini a questa o quella forza politica. Anche Mediaset, con l’avvento di Forza Italia, era diventata parte del panorama politico, e organizzava la programmazione dei suoi tre canali sulla falsariga dei tre della Rai.

La competizione non era sui margini e redditività, bensì sull’audience perché un’indicazione del consenso. Degli utili e di competere alla Rai non importava perché c’era il canone che, imponendo un tetto ai ricavi pubblicitari, rendeva superfluo ogni sforzo per conquistare quote di mercato e al governo importava solo la lottizzazione.

Lo status quo andava bene anche a Mediaset perché in questo modo gli veniva assicurata la maggiore fetta della torta pubblicitaria. La partita tra Rai e Mediaset si giocava dunque sull’audience: così il successo di un Festival di Sanremo beneficiava anche l’immagine del governo di turno. Qualcuno auspicavano la creazione di un “terzo polo” che potesse rompere l’anomalia italiana del duopolio Rai-Mediaset.

C’erano poi i quotidiani che si compravano in edicola, anche più di uno, ritenuti capaci di influenzare l’opinione pubblica, e per questo visti con insofferenza dalla politica che cercava di tacitare ogni critica o notizia scomoda a colpi di querele. La capacità di influenzare la politica era però anche nell’interesse degli editori che avevano i principali interessi economici altrove: la Fiat degli Agnelli e tanti altri al Corriere della Sera, la Cir di Carlo de Benedetti a Repubblica (oggi editore di Domani), Caltagirone al Messaggero, Fininvest al Giornale, ancora gli Agnelli alla Stampa e, caso unico al mondo, l’associazione degli imprenditori, Confindustria, al Sole-24 Ore. Un’altra anomalia italiana per cui si invocava l’avvento di editori “puri”.

Nulla cambia

L’industria dei media è forse quella che più di tutte è stata stravolta dalla rivoluzione tecnologica di questo ventennio. Ma a volte ho l’impressione che in Italia è come se il tempo si fosse fermato, e non ci sia piena cognizione di quanto vasti siano stati i cambiamenti, e di cosa ci aspetta in futuro

I media sono ancora dominati dal duopolio Mediaset-Rai; continua la lottizzazione della politica in Rai, come il sostegno di Mediaset a Forza Italia, e conseguentemente la scelta dei programmi, dirigenti e conduttori; la programmazione della Rai si basa ancora sui tre canali storici, come quella di Mediaset; il paese si ferma per il Festival di Sanremo; con il pretesto del servizio pubblico (la tv della Rai è commerciale) rimane il canone come meccanismo di spartizione della pubblicità nel duopolio; si guarda alla Nove tv sperando che possa diventare il mitico “terzo polo”; sono sparite le edicole, le copie dei quotidiani si riducono inesorabilmente col passare degli anni alla stessa velocità dell’invecchiamento della popolazione, ma i giornalisti continuano a monopolizzare i programmi di “opinione” in tv, e la politica rimane prigioniera della sua ossessione contro la stampa che cerca di tacitare a suon di querele (vedi l’accanimento terapeutico contro questo giornale).

Con Cairo a RCS abbiamo un editore “puro”, ma nella grande stampa Caltagirone mantiene il Messaggero, Stampa e Repubblica sono degli eredi Agnelli, il Giornale e altri quotidiani di destra sono di Angelucci (imprenditore della sanità), e Confindustria rimane l’unica associazione di imprenditori al mondo a possedere un quotidiano.

Distruzione di valore

I media italiani sono rimasti legati alle logiche del passato ma il settore è però cambiato radicalmente. La loro incapacità di ristrutturare, innovare e sfruttare le opportunità che ogni cambiamento comporta è stata così la fonte di una distruzione di valore senza precedenti. In venti anni Mediaset ha perso l’82 per cento del valore (da 11 miliardi a 2), l’85 RCS (da 2,6 miliardi a 400 milioni, pur con la 7 Tv), 94 il Sole-24Ore, 83 Caltagirone Editore, 67 Mondadori, 94 Monrif. In gran parte è il risultato della rivoluzione tecnologica americana e dei ritardi incolmabili dell’Europa; ma è anche colpa degli errori di gestione delle nostre imprese, del loro nanismo e ossessione per il controllo, della mancanza di visione e capacità di innovare, essendosi adagiate sui comodi equilibri del passato.

I quotidiani italiani sono rimasti alle logiche del prodotto cartaceo e alla raccolta pubblicitaria non riuscendo dopo 20 anni di internet a passare a un prodotto digitale, venduto in abbonamento: a giugno la percentuale media sul totale di copie digitali dei quotidiani (vendute a più del 30 per cento del costo del cartaceo) era di appena l’8 per cento, con un massimo del 26 per il Sole e 22 il Corriere.

Tv in declino

La tv lineare si basa ancora sul duopolio Rai-Mediaset per meglio spartirsi la torta pubblicitaria. Un meccanismo proficuo che però verrà inesorabilmente eroso da tre cambiamenti. Spariscono i telespettatori: la generazione Z guarda TikTok e YouTube; quella Y passa il tempo su Instagram, e chattare su WhatsUp; la X preferisce interagire con Facebook e Twitter (ora X), e vedere film e serie in streaming; alla tv generalista sono rimasti i baby boomers e la generazione “silenziosa”.

Qualche dubbio sui numeri veri dell’audience televisiva (calcolata dall’Auditel, controllata dalle stesse televisioni), e quindi sulla torta pubblicitaria della tv, è dunque legittimo. A differenza di tv e giornali, che non conoscono i loro utenti, Google, Instagram, Amazon e tutti i media digitali sanno tutto di loro e possono vendere alle aziende una pubblicità mirata che varrà sempre di più.

Assuefatti al duopolio, Rai e Mediaset sono stati lenti a reagire all’arrivo della tv a pagamento che è andata così appannaggio di Sky. Persa anche l’occasione del passaggio al segnale digitale non capendo che sono i contenuti, e non il numero dei canali, la chiave del successo.

Così tre erano, e tre rimangono i canali che generano i ricavi di Rai e Mediaset. Che siano i contenuti a vincere lo ha capito invece Netflix (capitalizza 300 miliardi, quando 20 anni fa valeva quanto la Caltagirone Editori!), e con lo streaming ha unito la capacità di produrre un enorme catalogo di contenuti, alla possibilità data agli utenti di cosa e quando vedere. Ma lo streaming richiede enormi capitali per le produzioni, e le economie di scala non permettono più la divisione tra televisione lineare, a pagamento, stampa, media digitali e produzione di contenuti: così negli Usa il settore è concentrato in pochi conglomerati: WarnerBros-Discovery, che (da noi ha Nove Tv) Disney, News Corp, Paramount e Comcast (da noi ha Sky). I gruppi citati operano in tutti i segmenti e devono difendersi dai nuovi entrati come Netflix, Amazon con Prime, Apple, o Google.

In Europa pochi hanno creato un conglomerato di successo: la Bertelsmann con le televisioni RTL, i libri della Random House, e la musica di BMG; l’inglese ITV nelle televisioni, streaming e contenuti; mentre non c’è riuscita Vivendi che dopo la musica si prepara alla separazione di tutto il resto. Ma ci sono altre storie europee di successo, specializzandosi in una nicchia per crescere fino a diventare una multinazionale: UMG e Spotify con la musica; Relx e Wolters Kluwer con le pubblicazioni e i servizi per le professioni, il mondo scientifico, e la medicina; o Pearson che ha preferito vendere il Financial Times ai giapponesi per concentrarsi nell’educazione e formazione (e vale 7 miliardi; se ne sono accorti in Confindustria?).

Costruire un gruppo europeo nei media in grado di competere coi conglomerati americani è una ricorrente utopia: troppo grande il divario accumulato. La vera rivoluzione nei media è arrivata però coi social dove ognuno può crearsi da solo e distribuire i propri contenuti: così si spiega il fenomeno degli influencer. Con l’Intelligenza artificiale, poi, la capacità degli individui di produrre i propri contenuti aumenterà a dismisura.

La stagnazione che continua a caratterizzare i media in Italia la condanna dunque all’irrilevanza e alla crisi economica. Quanti nostri imprenditori del settore, e quanta parte della classe politica (azionista di riferimento Rai), sa che oltre la metà delle 500 maggiori aziende di Fortune di venti anni fa, oggi non esiste più?

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