Quello della ex Gkn è un caso esemplare di logoramento, di segreti di Pulcinella, di soldi pubblici spesi per bollire le fabbriche. Ma è anche la storia di una comunità in grado di progettare il proprio futuro. Forse la lotta Gkn non vincerà, ma ha già lasciato un segno
Il disimpegno dall’Italia di Stellantis-Fca-Fiat è un finto segreto che dura da 30 anni. Basta dare un’occhiata ai numeri. Nel 1989 qui si producevano poco meno di 2 milioni di auto; nel 2024 Stellantis ne produrrà meno di 300mila: i livelli del 1957.
Nello stesso arco temporale, l’automotive italiano è passato da 500mila addetti a 278mila: un calo del 44 per cento. Solo la Fiat impiegava 200mila persone nel 1990, scese a 120mila nel 2000. Oggi in Italia Stellantis ha 47mila lavoratori, con un massiccio ricorso alla cassa integrazione e un piano per liberarsi di altri 4mila.
Lo smantellamento è da tempo sotto i riflettori del dibattito pubblico: interrogazioni parlamentari, tavoli di crisi, dichiarazioni assortite. Con un primo paradosso: nonostante il dibattito, il paese non acquisisce mai consapevolezza di quello che va fatto oggi, urgentemente; tutt’al più ipotizza cosa auspicabilmente si potrà fare domani. La politica industriale viene insomma ridotta a una moviola di logoramento, alla rassegnazione collettiva del così vanno le cose.
Secondo paradosso, e altro “segreto di Pulcinella”, l’immane disimpegno è stato finanziato da un altrettanto immane esborso di capitali pubblici. Dal 1975 al 2012 si stima che, in varie forme, lo stato – cioè la collettività – abbia versato a Fiat 220 miliardi di euro pubblici. Dal 2016 al 2024, tra cassa integrazione e incentivi, Fca/Stellantis ha ricevuto altri 900 milioni di euro circa, senza citare il prestito a garanzia di 6 miliardi di euro post-pandemia. Un fiume di soldi che avrebbe permesso di nazionalizzare la Fiat, con indennizzo, svariate volte.
Non è il paese, dunque, ad avere un'industria automobilistica; è questa a “possedere” il paese. Facendosi pagare per lasciarlo indietro.
Deserto industriale
Il vuoto dell’automotive sarà colmato da altro, dicono molti, con motivazioni solo apparentemente plausibili: i mercati, la globalizzazione, i costi. Ma la questione è più complessa. Perché il deserto industriale significa licenziamenti, competenze cancellate, uomini e donne fiaccati da anni di cassa integrazione. E perché quello di cui parliamo è tutt’altro che un vuoto: è, invece, spesso, un condensato di altri interessi economici.
Lo smantellamento, infatti, deforma il tessuto economico, contribuendo alla nascita di una “imprenditoria” delle dismissioni, fatta tanto di piccoli avventurieri quanto di enormi fondi d’investimento. Il capitale non lascia, ma rifluisce: verso profili ancora più finanziari, immobiliari, magari verso il porto sicuro del cemento o della sanità privata.
Il meccanismo del capitale è impersonale, ma agisce attraverso le persone: nascono nuovi manager, spesso pagati per confondere le tracce sulle responsabilità delle crisi. Apparentemente i loro salari non hanno alcun senso logico. Di certo nessuna logica industriale. L’ad di Stellantis, Carlos Tavares, percepiva fino a 758 volte lo stipendio di un operaio del gruppo.
Qualsiasi sia la sua buonuscita multimilionaria, è lecito chiamarla immorale: per la giustizia sociale, ma anche parametrata al merito, tanto menzionato di questi tempi. Tale “premio” si spiega bene invece in termini di dividendi: Stellantis nel 2023 ne ha distribuiti per 6,6 miliardi di euro. Tra le maggiori beneficiarie Exxor, la holding finanziaria della famiglia Agnelli. I manager sono dunque, in realtà, signori dei dividendi, e hanno la loro utilità. Ma il cortocircuito annuncia al mondo, casomai ancora non fosse chiaro, che questo capitalismo ha poco a che vedere con la produzione di beni reali.
La crisi dell’automotive
La crisi dell’automotive è faccenda tremendamente seria: impatta sull’intera struttura sociale. La transizione del settore lo è anche di più: non può essere affidata ai meccanismi appena descritti. Il problema è mondiale. Un piano sociale e l’intervento pubblico sono più che mai necessari.
La crisi climatica, le nuove tecnologie, l’incredibile livello di automazione hanno semplicemente esasperato l’incompatibilità tra l’idea di auto come mezzo di trasporto e l’oggetto di consumo “usa e getta”. Il futuro appartiene ai mezzi pubblici, al car sharing, al retrofit elettrico dei veicoli già esistenti e a tanta, tanta riparazione. Perché la società, il mondo, l’ambiente hanno il diritto e l’interesse oggettivo ad allungare la vita di una automobile, non ad accorciarla.
È una buona ragione per licenziare? Al contrario. La capacità materiale di convertire l’industria dell’auto non arriva dall’alto, ma dal basso. Le competenze non possono essere disperse, le comunità di fabbrica vanno salvaguardate. E solo reggendo sul terreno dei diritti sindacali si potrà trovare il perno attorno a cui dislocare le competenze pubbliche per imporre la riconversione di cui tutti parlano, ma nessuno fa.
Il caso Gkn
Una parte di questo processo è già in atto, a Campi Bisenzio. La storia della ex Gkn (la raccontiamo in Questo lavoro non è vita. La lotta di classe nel XXI secolo: il caso Gkn, Fuoriscena) è esemplare.
L’ex Fiat è stata spostata da Firenze nord a Campi Bisenzio nel 1993, per permettere un’enorme operazione immobiliare nell’area. A Campi Bisenzio la Fiat è diventata Gkn, continuando però a produrre l’85 per cento dei semiassi Fiat. Nel 2018 – storia recente – il gruppo Gkn è stato infine venduto al fondo finanziario Melrose, motto “compra, migliora, vendi”. Infatti il 9 luglio 2021 lo stabilimento Gkn di Campi Bisenzio è stato chiuso da un giorno all’altro, con una mail, a poche ore dall’uscita dell’ultimo pezzo: i 422 dipendenti destinati a restare senza lavoro.
Al posto di rassegnarsi, però, l’intera comunità, le organizzazioni sindacali e il collettivo operaio si sono coalizzati e hanno sconfitto i licenziamenti. Ne è nata anche una proposta di norma antidelocalizzazioni. La fabbrica dal dicembre 2021 è venduta, ma il lavoro non è tornato: decine di tavoli istituzionali, di promesse, di presunte svolte, con l’effetto di “ipnotizzare” l’opinione pubblica.
Nell’ottobre 2023 la nuova proprietà ha riavviato i licenziamenti. Sono stati di nuovo sconfitti: il tribunale del lavoro ha sanzionato per la seconda volta la condotta antisindacale. Eppure gli operai, in assemblea permanente, sono stati lasciati in un limbo: senza proposte, stipendio, lavoro. Con il sospetto che si tratti dell’ennesima operazione di speculazione immobiliare sulla chiusura di una fabbrica.
Il collettivo di fabbrica, insieme a docenti e a ricercatori universitari, alla rete solidale e alle organizzazioni sindacali, ha dunque pensato a come far ripartire la produzione. Dal basso. Insieme, unendo capacità diverse, hanno ideato un modello di fabbrica socialmente integrata, con un piano industriale ecologicamente avanzato (produzione di cargobike e pannelli fotovoltaici), integrata in un consorzio pubblico e con un azionariato popolare diffuso.
Hanno riscoperto il mutualismo e cercato la convergenza con altri movimenti. Infine, si è chiesto al pubblico di intervenire sull’area per permettere la ripartenza. Oggi, mentre la politica dilata allo sfinimento i tempi, gli operai, da 12 mesi senza stipendio, provano a resistere con ogni energia residua, con una campagna che hanno chiamato: “Resistere all’inverno, prenderci la primavera”.
Quello della ex Gkn è un caso esemplare di logoramento, di segreti di Pulcinella, di soldi pubblici spesi per bollire le fabbriche. Ma è anche la storia di una comunità in grado di progettare il proprio futuro. Forse la lotta Gkn non vincerà, ma ha già lasciato un segno: e se non puoi sconfiggere il buio, puoi comunque accendere una luce.
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