«Lo schema pubblico contributivo pagherà a tutti pensioni da fame; l’unica strada per una vecchiaia serena è iscriversi ai fondi pensione privati integrativi». Questa è una delle più ricorrenti affermazioni sulle criticità del nostro sistema pensionistico, su cui in questo articolo intendiamo proporre alcuni elementi di riflessione.

Pensioni “da fame”

Iniziamo dalla prima parte, in base alla quale «tutti avremo pensioni da fame». Va ricordato che, a parità di andamento aggregato di economia e demografia, nel contributivo la prestazione dipende unicamente da quanto si contribuisce, quindi dal successo della carriera.

Basandosi su stretti criteri di equità attuariale fra versamenti e prestazioni, il contributivo costituisce uno specchio di quanto accade all’individuo sul mercato del lavoro. In questo quadro, l’innalzamento continuo dell’età pensionabile – intorno al 2040 si andrà in pensione ad almeno 69 anni d’età o con non meno di 44-45 anni di contribuzione – migliora l’adeguatezza delle prestazioni per chi è in grado di lavorare a lungo.

Con carriere “piene” e lunghe il rapporto fra pensione e ultima retribuzione sarebbe del tutto simile a quello dello schema retributivo, che però permetteva di accedere a prestazioni di simile importo a età ben inferiori. Dunque, se la vita lavorativa è stata stabile e remunerata decentemente la prestazione pubblica, al pensionamento, sarà adeguata, smentendo che «tutti avremo pensioni da fame».

Tuttavia, un rischio di inadeguatezza della pensione futura esiste, e grave, per chi avesse una carriera lavorativa con bassi salari e frequenti interruzioni. Al momento non si conosce quanti futuri pensionati saranno in queste condizioni ma, in base alle evidenze disponibili, una quota molto rilevante di chi ha iniziato a lavorare dopo il 1995 potrebbe giungere al pensionamento con un limitato montante contributivo. Le pensioni private potrebbero, in questi casi, integrare le magre prestazioni pubbliche.

Ma è poco plausibile che chi percepisce bassi salari e ha prospettive incerte disponga delle risorse necessarie per effettuare versamenti aggiuntivi ai fondi pensione o preferisca risparmiare per la vecchiaia anziché fare fronte alle necessità correnti. Come già sottolineato su Domani, per questi individui la risposta andrebbe cercata all’interno del sistema pubblico, introducendo forme di pensione di garanzia.

La previdenza integrativa

Ma, allora, non è vero che l’adesione alla previdenza integrativa è necessaria per tutti?

Per rispondere a questa domanda bisogna partire da un assunto al quale ben poca attenzione è stata data nel dibattito pubblico. Le norme relative alle età di pensionamento stabilite dalle riforme del 2005, 2009 e 2011 – che l’hanno molto innalzata, cancellando la flessibilità prevista dalla riforma del 1995 – hanno spiazzato la logica originaria del disegno della previdenza integrativa in Italia: integrare le ridotte pensioni pubbliche di chi si ritirasse dal lavoro in età relativamente giovani.

Considerando le età pensionabili molto elevate previste dall’attuale cornice normativa, chi avesse carriere lunghe e dignitose riceverebbe, come detto, una prestazione adeguata al tenore di vita in età attiva. Questi individui “relativamente abbienti” sceglierebbero, allora, di investire nella previdenza privata per due motivi: beneficiare – nei fondi negoziali – del contributo datoriale previsto dai contratti collettivi (pari a circa l’1 per cento della retribuzione lorda) e, soprattutto, godere dei cospicui sgravi fiscali di cui beneficiano i fondi pensione.

Al contrario, se le prestazioni fossero di importo inadeguato si incontrerebbero enormi difficoltà a partecipare alla previdenza privata. L’innalzamento dell’età pensionabile e la cancellazione di forme di pensionamento flessibile hanno, dunque, stravolto l’idea di necessità della pensione integrativa che è diventata non strettamente necessaria (a fini previdenziali) a chi se la può permettere e che invece sarebbe necessaria a chi non se la può permettere.

Efficienza ed equità

In questo quadro, va posta molta attenzione alle cospicue agevolazioni fiscali previste per la previdenza integrativa: i versamenti sono dedotti dall’imponibile fino a 5.164 euro l’anno; sui rendimenti l’aliquota è del 20 per cento (a fronte del 26 per cento sui rendimenti finanziari); sulle prestazioni si applica un’aliquota flat fra il 9 e il 15 per cento.

Le agevolazioni fiscali al welfare privato vanno valutate in base a criteri di efficienza – relativa all’accesso a prestazioni fornite poco o male dallo stato e a un maggior risparmio a lungo termine – e di equità. Le motivazioni di efficienza si attenuano sensibilmente qualora l’offerta pubblica sia sufficiente a tutelare gli individui rispetto al rischio di ricevere pensioni di importo inadeguato.

Per quanto riguarda l’equità, è cruciale la tipologia di coloro che traggono maggior vantaggio dai benefici fiscali. Se di tali agevolazioni beneficiassero soprattutto i più abbienti – per i quali la pensione pubblica appare adeguata – non se ne avvantaggerebbero né l’efficienza né l’equità e la spesa fiscale legata alle agevolazioni andrebbe considerata uno spreco di risorse pubbliche destinabili ad altri scopi, aggravato dal loro impatto regressivo.

Nel caso italiano, contributi deducibili (anziché detraibili dall’imposta) generano una chiara regressività, avvantaggiando chi ha un’aliquota marginale più elevata. Per dare un’idea, ipotizzando due persone con retribuzione di 20.000 e 100.000 euro lordi annui che versano il 5 per cento della retribuzione ai fondi pensione, e prescindendo dalle imposte locali, la prima beneficerebbe di uno sgravio di 230 euro, la seconda di 2.150 euro: il più abbiente (con un reddito 5 volte maggiore) otterrebbe uno sgravio pari a quasi 10 volte quello del meno abbiente. E l’ipotesi di pari aliquota non è plausibile, dato che la possibilità di versare contribuzione aggiuntiva aumenta al crescere del reddito.

Quanto alle imposte sulle prestazioni, si rivelano anch’esse regressive perché i più abbienti partecipano in misura maggiore alla previdenza integrativa e beneficiano di un maggior differenziale fra aliquota marginale e proporzionale. I dati a disposizione mostrano infatti chiaramente che in Italia ricorrono alla previdenza integrative soprattutto i “più forti”: la partecipazione ai fondi aumenta con l’età, è più alta fra dirigenti e impiegati, fra chi lavora nelle grandi piuttosto che nelle piccole imprese e cresce sensibilmente con la retribuzione.

Queste riflessioni, rendono evidente come – a causa di un’adesione ai fondi pensione prevalente tra chi ne avrebbe meno bisogno in ottica previdenziale – la scelta di sostenere fiscalmente il pilastro pensionistico integrativo non sia né particolarmente efficiente né equa.

Se si ritiene doveroso migliorare le prestazioni pensionistiche attese dei lavoratori con carriere meno favorevoli, si dovrebbe intervenire all’interno del sistema pubblico – recuperando le risorse destinate agli sgravi fiscali per finanziare, almeno in parte, le uscite anticipate dei più bisognosi o la pensione di garanzia – anziché immaginare ulteriori agevolazioni alla previdenza integrativa che finirebbero per acuire le disuguaglianze fra lavoratori e aggravare la situazione dei conti pubblici.

Al riguardo, nella legge di Bilancio per il 2024 si legge che la deducibilità dei contributi, di cui beneficiano poco meno di 5 milioni di individui, genera 2,6 miliardi di euro di mancate entrate all’anno. A regime, quando il numero di pensionati che ricevono prestazioni dai fondi pensione sarà cresciuto e nel computo si aggiungeranno le mancate entrate dalla flat tax sulle prestazioni, l’esborso annuo per il bilancio pubblico sarà quindi simile a quello per la principale misura di sostegno ai poveri, l’assegno di inclusione (circa 5 miliardi). Ragioni di efficienza e di equità, oltre che di attenzione ai conti pubblici, suggeriscono, dunque, di non affidarsi alla previdenza integrativa per cercare soluzioni ai problemi del nostro sistema pensionistico.

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