L’economia è al centro delle preoccupazioni dei francesi: il programma del Rn non è lontano da quello di Macron. La filosofia di fondo dell’agenda del fronte popolare è radicalmente diversa, e prevede investimenti massicci
Dopo una campagna elettorale lampo, di sole tre settimane, oggi la Francia vota per il primo turno delle elezioni legislative.
La scommessa di Macron, che aveva sparigliato nella speranza di non dare il tempo ai suoi avversari per organizzarsi, non sembra aver funzionato: la sinistra è riuscita in pochi giorni ad accordarsi su una lista di candidati e soprattutto su di un programma comune, formando un Nuovo Fronte Popolare (Nfp); e il Rassemblement National (Rn) di Le Pen e di Bardella, ha capitalizzato sul successo delle europee attirando una parte della destra gollista (il partito dell’ex presidente Sarkozy è esploso) e nei sondaggi è cresciuto ancora.
Il sistema elettorale francese prevede che al secondo turno si qualifichino i primi due candidati più ogni candidato che abbia almeno il 12,5 per cento degli aventi diritto nella circoscrizione. Essendo la partecipazione prevista in netto rialzo, questo dovrebbe consentire al partito centrista del presidente di arrivare al secondo turno in un numero significativo di circoscrizioni nonostante sia distanziato nei sondaggi da RN e NFP.
Ciononostante, a meno di cataclismi, il centro uscirà con ogni probabilità decimato dalle elezioni e la sola incertezza è se il Rassemblement National avrà la maggioranza assoluta o solo quella relativa dei deputati.
Una battaglia di civiltà
Lo scrutinio di oggi e di domani dovrebbe in primo luogo essere una battaglia per far fronte contro i candidati dell’estrema destra.
Nonostante i tentativi del giovane e telegenico Bardella di farlo dimenticare, il Rn rimane un partito xenofobo e radicale, con frange violente e un programma incentrato sulla cosiddetta preferenza nazionale, che segmenterebbe la società dando ai cittadini di origine straniera meno diritti.
Parliamo insomma di un partito che rimane al limite dell’eversione, percorso da forti istinti islamofobi e antisemiti (stranamente dimenticati da un sistema mediatico ossessionato dai pochi e inaccettabili casi di ambiguità su Hamas e Israele da parte di candidati della sinistra).
Per questo oggi lascia esterrefatti l’ambiguità della fu maggioranza centrista di Macron, che rifiuta di prendere posizione chiaramente per un fronte repubblicano, che in ogni circoscrizione dia indicazione di voto al secondo turno per il candidato meglio piazzato per battere l’estrema destra.
Molti commentatori, non solo a sinistra, ricordano in questi giorni che nonostante i mal di pancia la sinistra nel 2017 e nel 2022 ha sostenuto al secondo turno il partito del presidente.
I tentativi di Macron di far passare la sinistra e la destra come ugualmente “estreme” (al punto di concentrare la maggior parte della campagna sulle critiche alla sinistra) rischiano di far naufragare il fronte repubblicano che fino ad oggi aveva tenuto, e saranno un’ulteriore macchia sull’eredità di questo presidente controverso.
Ma il fatto che il voto di oggi sia in primo luogo una scelta di civiltà non deve far dimenticare che i temi economici sono al centro delle preoccupazioni dei francesi e che anche sull’economia le differenze sono notevoli.
Continuità e rottura
Il partito del presidente ripropone la stessa filosofia che ha guidato le politiche degli ultimi sette anni: il rifiuto di aumentare le imposte, mantra di Macron fin dal 2017, e sussidi principalmente alle imprese, nella convinzione (che fin qui, come era facile prevedere, non ha funzionato) che le politiche dell’offerta e lo “sgocciolamento”, la redistribuzione a favore dei più ricchi che dovrebbe portare a più crescita e quindi a maggiore reddito anche per i meno agiati possano rilanciare la crescita e quindi risanare le finanze pubbliche.
In un quadro mutato rispetto al passato recente, con la Francia declassata dalle agenzie di notazione e in procedura d’infrazione europea per disavanzo eccessivo, questo lascia immaginare che un eventuale (e totalmente irrealistico) nuovo governo centrista continuerebbe con i tagli ai servizi e con la riduzione della copertura dello Stato sociale (pensioni, mercato del lavoro, etc.).
Almeno per quel che riguarda gli aspetti distributivi, il programma del Rn non è troppo distante da quello di Macron (e questo spiega probabilmente perché anche in ambienti economici la preferenza vada a Bardella piuttosto che alla sinistra).
Il partito di Le Pen è quello che è rimasto più vago riguardo ai dettagli di un programma che presenta come di sostegno alle classi popolari, ad esempio con la riduzione dell’Iva sui prodotti energetici finanziata con la soppressione delle prestazioni sociali per gli immigrati. Ma di fatto un’applicazione del programma avrebbe un forte effetto redistributivo, beneficiando il 10 per cento più ricco (tramite esenzioni fiscali sulle imprese e riduzione dell’Iva) e penalizzando i più poveri (con la riduzione delle prestazioni sociali).
La filosofia di fondo del programma del Nuovo Fronte Popolare è radicalmente diversa, spiegando forse perché Macron è pronto a far saltare il fronte repubblicano contro l’estrema destra.
La sinistra parte dalla necessità di rifinanziare molti servizi pubblici (sanità, istruzione, pensioni) che sono stati negli anni prosciugati dai tagli (Macron in questo è stato in continuità con i presidenti precedenti, anche socialisti) e di investire massicciamente nella transizione ecologica.
Argomentando che questo non possa essere fatto aumentando ulteriormente il debito, il Nfp propone un’inversione di rotta rispetto al passato aumentando l’imposizione sulle grandi imprese, sui redditi più elevati e sulle grandi fortune (l’1 per cento più ricco della popolazione).
Nel programma del Nfp appaiono quindi la patrimoniale (abolita da Macron), l’aumento della progressività dell’imposta sul reddito, la tassazione degli extra profitti, l’aumento del salario minimo.
Proteggere le classi medie
Molti economisti moderati hanno fustigato il programma della sinistra (ancora una volta un pericoloso “né-né” che rischia di mettere sullo stesso piano la sinistra e l’estrema destra) argomentando che farebbe fuggire all’estero le grandi fortune e minerebbe la competitività delle imprese facendo crollare crescita e occupazione.
Si tratta di critiche in larga parte eccessive che si concentrano su singole misure senza considerare i benefici, ad esempio per la crescita della produttività, di un sistema economico meno disuguale e con un capitale pubblico (tangibile e intangibile) di maggiore qualità.
È ovvio che il programma dovrebbe essere attuato con qualche cautela e gradualità, insistendo sulla concertazione a livello nazionale, sulla cooperazione internazionale e su misure globali come la tassazione minima mondiale dei grandi patrimoni proposta dalla presidenza brasiliana del G20, o ancora la tassazione globale delle multinazionali su cui lavora l’Ocse.
Ma la cautela non dovrebbe far dimenticare il fatto che, se si parte dalla premessa che la crisi delle nostre democrazie nasce dalla precarizzazione e dall’impoverimento delle classi medie, solo un cambiamento radicale di filosofia politica, che redistribuisca in modo più equo costi e benefici della globalizzazione, può fermare l’ascesa degli estremisti, che si chiamino Le Pen, Orban o Trump.
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