Dal 2019, quando fu siglato il vecchio accordo, l’import italiano è cresciuto del 50 per cento, e ora le aziende chiedono aiuto al governo per creare nuovi varchi al Made in Italy
Da una parte ci sono le promesse e i solenni impegni. Insomma, parole. Dall’altra i dati concreti, che fatalmente si traducono in moneta sonante. Conviene partire da questi ultimi, dai numeri dei rapporti commerciali tra Italia e Cina, per immaginare quali potranno essere sul fronte degli affari le ricadute concrete del viaggio di Giorgia Meloni a Pechino.
Un vertice che, come sempre accade in queste occasioni, ha prodotto una montagna di buone intenzioni che dovranno confrontarsi con la realtà dei fatti. E i fatti, quelli descritti dalle statistiche ufficiali, confermano che l’export italiano ha un “grande potenziale da colmare” nei confronti della Cina, come hanno sottolineato ieri i rappresentanti di Confindustria durante il Business forum organizzato a Pechino in occasione della visita di Meloni.
Pechino vince
Il “grande potenziale” da colmare è una formula eufemistica che descrive il rapidissimo aumento del deficit commerciale italiano. Ecco qualche numero utile a comprendere perché il governo di Roma, messo sotto pressione dalle aziende, chiede “un riequilibrio dei rapporti commerciali”.
Ebbene, nel 2019 l’Italia aveva esportato in Cina merci per un valore quasi 13 miliardi di euro (12,96 miliardi). Alla fine del 2023 il dato dell’export è cresciuto del 47 per cento a 19,1 miliardi. Un dato positivo, se non fosse che nel frattempo le importazioni sono aumentate a un ritmo ancora maggiore, dai 31,6 miliardi del 2019 ai 47,6 miliardi dell’anno scorso, con un incremento del 50,6 per cento. Il deficit commerciale di Roma, pari a 28,4 miliardi nel 2023, è diminuito rispetto all’anno precedente (41,4 miliardi), ma resta ancora molto superiore ai 22 miliardi del 2021.
Dati alla mano, quindi, l’accordo della “Via della Seta”, siglato a marzo del 2019 dal governo di Giuseppe Conte, non sembra aver portato vantaggi concreti all’Italia, anzi, il divario con Pechino si è ampliato. Va detto che nei primi quattro mesi del 2024, dopo la disdetta dell’intesa nel dicembre scorso, il saldo negativo per l’Italia si è ampliato a 10,2 miliardi contro i 7.7 miliardi dello stesso periodo del 2023.
Lo sgarbo su Pirelli
Il clima di questi mesi, segnati dal giro di vite Ue contro l’import di auto elettriche con i marchi del Dragone, non sembra esattamente il più favorevole per le aziende a caccia di occasioni d’affari in Cina. Meloni però ha cercato di accreditarsi come possibile alleato in Europa per ammorbidire la posizione dei partner più duri verso Pechino, in primo luogo la Francia.
Poi c’è il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso che non perde occasione per evocare il prossimo sbarco di un produttore d’auto cinese in Italia. Inviti che per il momento non hanno prodotto risultati concreti, salvo un aumento delle pressioni su Stellantis nel negoziato sui siti produttivi nella Penisola.
Ben più concreto, invece, è stato lo stop imposto dal governo Meloni alle ambizioni cinesi su Pirelli. Nel giugno dell’anno scorso il gruppo è stato riconsegnato a Marco Tronchetti Provera, azzerando il patto di sindacato che avrebbe consegnato il controllo alla cinese Sinochem, controllata dal governo di Pechino, che il socio più importante con una quota del 37 per cento, contro il 20,5 per cento di Tronchetti. Uno sgarbo che vale miliardi, difficile da dimenticare per il presidente Xi al tavolo del negoziato con Meloni.
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