«Possiamo vantare un’importante stabilità politica, fatto da noi abbastanza raro», rivendica la premier. La visita in Cina diventa il trampolino di lancio per sfidare l’Ue dopo le raccomandazioni sulla libertà di stampa
La tempistica è quella buona, la visita ufficiale in Cina può assolvere alla principale funzione: rilanciare l’immagine appannata di Giorgia Meloni, diventare una grancassa per la narrazione. Del resto è stato programmato atterraggio morbido, con una serie di incontri apparecchiati con i vertici della Repubblica popolare.
Tutto politicamente blindato, a prova di scivolone. Prima il primo ministro cinese, Li Qiang poi il presidente Xi Jinping. Insomma, altro che perdere le giornate appresso a Antonio Tajani e Matteo Salvini, i litigiosi avversari che fanno salire la temperatura politica a palazzo Chigi.
Uno scenario ideale per rilanciare la battaglia contro Ursula von der Leyen, diventata ormai avversaria.
Proprio durante gli incontri in Cina, è stata resa nota la lettera di replica sullo stato dell’informazione in Italia: «Le raccomandazioni finali nei confronti dell'Italia non si discostano particolarmente da quelle degli anni precedenti, tuttavia per la prima volta il contenuto di questo documento è stato distorto a uso politico da alcuni nel tentativo di attaccare il governo italiano», ha scritto Meloni contraddicendo le annotazioni di Bruxelles.
Impatto mediatico
Un buon palcoscenico, quindi. Del resto il tour, con tappa principale a Pechino, è perfetto quindi per congelare i dossier interni più complicati come il difficile rapporto con i vertici Ue.
Per qualche giorno Meloni potrà volare alto, indossare la grisaglia istituzionale del capo di governo che siede al tavolo con i leader di una super potenza economica. Meglio parlare del partenariato con la Cina per le auto green invece di pensare ai problemi quotidiani dai poteri alle regioni alla riforma del premierato che non convince o a Bruxelles che guarda con sospetto alle mosse dell’esecutivo.
Così, l’obiettivo del viaggio, prima che diplomatico, è mediatico. Fin dalla discesa dalle scale di sabato era chiaro il messaggio, con la presenza della figlia Ginevra al suo fianco, con buona pace della tutela della privacy tante volte invocata. È lo storytelling, bellezza.
In questo clima non è mancata un po’ di sana autopromozione. «Oggi possiamo vantare anche un’importante stabilità politica, fatto da noi abbastanza raro, ma non secondario, perché la stabilità politica garantisce anche la continuità delle strategie che si sceglie di perseguire.
È una garanzia per chi investe e per chi riceve l’investimento», ha detto la presidente del Consiglio durante l’intervento al Business forum Italia-Cina prima dell’incontro con l’omologo Li Qiang.
Certo, il passaggio geopolitico del viaggio in Cina ha un suo impatto. Dopo cinque anni, un premier italiano va a Pechino. L’ultimo era stato infatti Giuseppe Conte che aveva aderito alla Via della Seta, un accordo di grande impatto da cui il governo è uscito con il nuovo documento sottoscritto.
La fase storica è cambiata e bisogna rivolgere lo sguardo verso Washington. La leader di Fratelli d’Italia sa bene che sia Kamal Harris, da erede della politica di Joe Biden, che Donald Trump guardano quantomeno con sospetto le mosse della Cina. Dalla guerra in Ucraina alle strategie commerciali.
Amici con la Cina sì, ma entro un limite ben fissato. Ancora di più se alla Casa Bianca arriva il candidato repubblicano.
A tutto spin
Per questo la comunicazione è centrale. Palazzo Chigi, in una nota, ha infatti riferito al termine dell’incontro con Li Qiang: «È stato adottato un Piano d’Azione per il rafforzamento del Partenariato Strategico Globale (2024-2027) e sono state sottoscritte 6 intese, relative alla collaborazione industriale, alla tutela delle indicazioni geografiche, alla sicurezza alimentare, all’ambiente e all’istruzione».
La missione cinese diventa centrale pure per consolidare i rapporti con il mondo imprenditoriale.
Da Confindustria è arrivato, attraverso la vicepresidente per l'Export e l'attrazione degli investimenti Barbara Cimmino, un apprezzamento per la visita «opportuna e tempestiva».
Non tutti sono disposti a intestare trionfi a Meloni. Nel governo c’è chi non vuole lasciare l’intero proscenio mediatico alla premier. Tajani, da ministro degli Esteri, rivendica per interposta persona un ruolo nella relazione stabilita con Pechino.
«La firma del piano triennale d'azione e di sei intese in settori strategici segnano l'inizio di una nuova fase di cooperazione. Un risultato raggiunto grazie al Ministro degli Esteri Antonio Tajani», ha detto il senatore di Forza Italia, Mario Occhiuto, elogiando «l’impegno determinante nel preparare questi incontri e la cui visione strategica ha facilitato il rilancio dei principali meccanismi di dialogo strutturato con la Cina, dimostrando l'importanza di sviluppare relazioni solide e reciprocamente vantaggiose».
Insomma, i meriti non vanno attribuiti solo alla presidente del Consiglio, secondo un altro pezzo di narrazione nella maggioranza. Anche se il climax della propaganda meloniana è destinato a crescere in concomitanza del colloquio con Xi Jinping.
Il timing dello scontro con l’Ue è significativo: mentre la premier si muove da leader a Pechino, decide di rendere nota la propria sfida a Bruxelles. E sulla libertà di informazione si è difesa su tutta la linea fino a sostenere che in Rai alcuni giornalisti sono andati via per «dinamiche di mercato» e che non c’è stata alcuna violazione degli spazi mediatici. Toni e parole che segnalano una tensione a livelli massimi.
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