Narrano le cronache che sabato scorso a Cernobbio gli imprenditori presenti in platea hanno applaudito convinti il discorso di Giorgia Meloni. Tre giorni dopo, cioè ieri, l’Istat ha diffuso i dati della produzione industriale. E qui c’è davvero poco da battere le mani: i numeri sono negativi.

Viene il sospetto, allora, che i consensi raccolti dalla premier in riva al lago di Como fossero più che altro una forma d’incoraggiamento per un governo che a partire dalla comune battaglia contro il Green Deal europeo appare più che mai schierato al fianco di Confindustria.

Propaganda e realtà

Nel frattempo, però, nonostante gli sforzi di Palazzo Chigi per accreditare i brillanti risultati della Melonomics, le statistiche raccontano una realtà diversa. La produzione industriale, termometro affidabile dello stato di salute dell’economia, in luglio è diminuita dello 0,9 per cento rispetto a giugno e nell’arco di un anno il calo ha toccato il 3,3 per cento. È vero che non tutti i settori viaggiano alla stessa andatura. Quelli più in difficoltà sono il tessile abbigliamento, meno 18,3 per cento nei dodici mesi, e la fabbricazione di autoveicoli, meno 11,4 per cento, zavorrata dalle difficoltà di Stellantis.

Detto questo, le difficoltà dell’industria suonano come la conferma che le incognite sulla strada della crescita restano numerose. Il Pil aumenta (poco) in linea con l’Europa, ma l’export nei primi sei mesi del 2024 è diminuito dell’1 per cento sul 2023, proprio mentre Meloni, a Cernobbio e altrove, celebrava l’Italia “quarto paese esportatore del mondo”.

Il numero degli occupati, altro punto forte della narrazione governativa, aumenta mese dopo mese, ma il rapporto della Coop presentato ieri ci informa che gli italiani devono lavorare di più per mantenere lo stesso livello di reddito. E allora non stupisce che, come segnala Istat, l’indice di fiducia dei consumatori è diminuito in agosto, “con un deterioramento delle opinioni sulla situazione economica generale e personale”.

Sentiero stretto

In questo contesto, il governo promette che nella prossima manovra verranno confermate tutte le misure a difesa delle famiglie a basso reddito, come l’Assegno unico e gli sgravi contributivi per le mamme lavoratrici. Poi c’è il taglio del cuneo fiscale, che verrà prorogato anche nel 2025 e da solo assorbe quasi la metà dei 25 miliardi disponibili.

Su tutto il resto però l’esecutivo è costretto a giocare in difesa. Come sa bene il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, che infatti non smette di predicare prudenza, le regole del nuovo Patto di stabilità impongono di tracciare un percorso di riduzione del disavanzo di bilancio nell’arco di sette anni, con poche e delimitate possibilità di cambiare passo e itinerario.

A questo punto, quindi, si tratta di capire se il governo deciderà davvero di piegarsi alle richieste di chi come Matteo Salvini vorrebbe spendere miliardi per aumentare il tasso d’iniquità, già elevatissimo, del nostro sistema fiscale, estendendo la flat tax per le partite Iva dagli 85mila euro di reddito fino a 100mila. Oppure se le scarse risorse disponibili verranno almeno in parte indirizzate verso misure che stimolino gli investimenti produttivi e il reddito reale dei lavoratori.

Anche così si favorisce la crescita, a meno che il governo non creda davvero che il traino del Pnrr sia sufficiente a tenere a galla il Pil.

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