Il conflitto capitale-lavoro ha una storia molto lunga, indipendentemente dal cambiamento del contenuto di sapere e saper fare di capitale e lavoro. Che cosa è accaduto negli ultimi vent’anni?

La contabilità nazionale è fondamentale per analizzare il flusso di reddito sia dal lato della domanda e sia dal lato dell’offerta, così come è fondamentale per studiare la ripartizione dello stesso reddito tra i diversi soggetti economici. D’altra parte, la comparazione tra diversi Paesi (Francia, Germania, Italia e Spagna) tra il 2000 e il 2022 permette di verificare affinità e diversità di struttura nella ripartizione del reddito disponibile.

Il reddito da lavoro è fondamentale per sostenere i consumi e sono alla base delle aspettative delle imprese per delineare gli investimenti necessari tesi a soddisfare (nel tempo futuro) i consumi che mutano contenuto tecnologico. Questa domanda è strategica, tanto più che la globalizzazione sembra lasciare uno spazio inedito alla riorganizzazione della catena del valore, compromessa dalla Pandemia e dalla guerra in Ucraina.

Confronto europeo

Rispetto ai paesi considerati, l’Italia è il Paese con la quota da reddito da lavoro (dipendente) sul Pil più contenuta: passa dal 36 per cento del 2000 al 41 per cento del 2022, ma il livello degli altri paesi è sempre superiore al 50 per cento del Pil. Se consideriamo solo il 2022, il reddito da lavoro sul Pil è pari al 52 per cento in Francia e Germania e al 47 per cento in Spagna. Inoltre, il costo del lavoro di Francia e Germania, così come il livello di pressione fiscale, è più alta di quella italiana.

Il reddito da profitto (risultato lordo di gestione in rapporto al Pil) registra una anomalia importante: l’Italia è l’unico Paese tra quelli considerati in cui il risultato lordo di gestione è sistematicamente più alto del reddito da lavoro sul Pil.

Il peso dei profitti sul totale dei redditi è diminuita in rapporto al Pil tra il 2020 e il 2022, passando dal 50 al 47 per cento, ma in Italia rimane molto più alta rispetto agli altri grandi paesi considerati: in Francia passa dal 36 al 34 per cento tra il 2000 e il 2022, in Germania dal 38 per cento del 2000 al 39 per cento del 2022, in Spagna dal 42 al 43 per cento del Pil tra il 2000 e il 2022. Ciò solleva delle questioni economiche e sociali fondamentali, tanto più che in Italia i livelli di profitto non sembrano aver favorito gli investimenti, che sono inferiori di oltre quattro punti di Pil rispetto ai paesi analizzati.

Made in Italy in declino

In effetti, gli investimenti nazionali in rapporto al Pil sono più bassi della media europea di almeno cinque punti. Se la dinamica degli investimenti è correlata alle aspettative degli imprenditori e alla necessità delle stesse imprese di anticipare e/o spiazzare i concorrenti nella realizzazione di nuovi beni e servizi, perché le imprese italiane allora non investono quanto e come quelle europee per “rubare” quote di mercato?

Da un lato il sistema delle imprese nazionale immagina sé medesimo come residuale nel consesso europeo, dall’altro lato la struttura economica necessita di minori investimenti data la propria specializzazione produttiva.

In altri termini, investire di più per il sistema economico nazionale sembrerebbe essere un lusso data l’attuale specializzazione produttiva che soddisfa una domanda sostanzialmente declinante: il made in Italy soddisfa una domanda via via sempre più contenuta, mentre la domanda di beni e servizi a maggiore contenuto tecnologico registra dei tassi di crescita importanti e sicuramente maggiori dell’italian style.

La rendita nella contabilità nazionale è sempre residuale tra il 9 e il 14 per cento del Pil, ma non sembra coerente con il concetto di rendita che nel tempo è profondamente cambiato. In realtà, la rendita nella contabilità economica meriterebbe un miglioramento statistico che altri e più qualificati economisti del sottoscritto possono fare.

Problema di struttura

La breve rassegna della contabilità economica riferibile alla ripartizione del reddito tra lavoro e capitale nazionale, comparata a quella di Francia, Germania e Spagna, permette di rappresentare il posizionamento degli attori sociali nella distribuzione del reddito all’interno del proprio tessuto economico e, soprattutto, rispetto ai paesi che assorbano l’80% del Pil europeo.

Emerge un problema di struttura nel mercato che le politiche fiscali non possono risolvere. Possono migliorarla, ma la disuguaglianza nel marcato tra i percettori di reddito da lavoro e capitale obbligano la politica pubblica ad assumere dei provvedimenti che modificano le regole di ingaggio nel mercato. Ciò è tanto più urgente se consideriamo l’esito della discussione europea circa la riforma del Patto di stabilità.

© Riproduzione riservata