Come era prevedibile, la politica monetaria inizia infine a mordere e la crescita rallenta. Questo degrada le finanze pubbliche e la reazione dei governi è quella di attuare misure di austerità. Questo dimostra scarsa conoscenza della teoria economica e scarsa memoria di fatti recenti come la crisi del debito sovrano dei primi anni Duemila dieci
La settimana scorsa la Commissione europea ha rivisto al ribasso le proprie previsioni sia per la crescita sia per l’inflazione, che continua a calare più in fretta del previsto. Contrariamente agli Stati Uniti, da noi non c’è nessun “atterraggio morbido”.
Come argomentato da molti, la restrizione monetaria non ha avuto un ruolo rilevante nel riportare l’inflazione sotto controllo (ancora oggi la dinamica dei prezzi è principalmente determinata dall’energia e dai costi di trasporto).
Invece, conformemente a quello che ci dice la letteratura in proposito, sta iniziando, a 18 mesi dall’inizio dell’aumento dei tassi, a mordere sul costo del credito, quindi su consumi, investimenti e crescita. Questo rallentamento dell’economia avviene in un contesto diverso da quello della pandemia. Allora, banchieri centrali e ministri delle finanze erano tutti d’accordo sul fatto che si dovesse sostenere l’attività con ogni mezzo, un whatever it takes fiscale.
Oggi il clima è molto diverso, e il discorso pubblico è dominato dall’ossessione per la riduzione del debito pubblico, come testimoniano le recenti prese di posizione del ministro delle finanze tedesco Lindner e la deludente riforma del Patto di Stabilità. Il rischio per l’Europa di ripetere gli errori del passato, in particolare dell’infausta stagione dell’austerità degli anni 2010-2014, è quindi particolarmente elevato.
Debito e crescita
In questo quadro, non si può che guardare con preoccupazione a quello che succede oltralpe. Anche il governo francese ha annunciato una revisione al ribasso della previsione di crescita per il 2024, dall’1,4 per cento all’1 per cento.
Contestualmente, il ministro Le Maire ha annunciato un taglio della spesa pubblica di dieci miliardi (circa lo 0,4 per cento del Pil), per mantenere gli obiettivi annunciati in precedenza di disavanzo e di debito. Questa scelta è scellerata per almeno due ragioni.
La prima è che si è scelto di andare a cercare i dieci miliardi esclusivamente dal lato della spesa pubblica, accanendosi in particolare sulle “spese per il futuro”. 2 miliardi tolti al budget per la transizione ecologica, 1,1 a lavoro e occupazione, 900 milioni per la ricerca e l’insegnamento superiore, e via di seguito. Insomma, si è scelto, ancora una volta, di non aumentare le imposte alle classi più agiate ma di tagliare l’investimento nel capitale futuro (tangibile e intangibile).
Ma indipendentemente dalla composizione, la scelta di perseguire gli obiettivi di finanze pubbliche riducendo la spesa nel momento in cui l’economia rallenta va contro quello che ci insegna la teoria economica e, fatto ancora più grave per una classe politica alla guida di una grande economia, quello che ci insegna la storia recente europea. Come indicatore (in realtà molto imperfetto, ma su questo qui possiamo soprassedere) della sostenibilità delle finanze pubbliche si prende generalmente il rapporto tra debito pubblico e Pil.
Quando il denominatore, il Pil, cala o cresce meno del previsto, sembrerebbe a prima vista logico riportare il rapporto al valore desiderato riducendo il debito che è al numeratore, vale a dire aumentando le imposte o riducendo la spesa pubblica. Ma le cose non sono così semplici, perché in realtà le due variabili, Pil e debito, sono legate tra loro.
Riducendo la spesa pubblica, o aumentando le tasse e quindi riducendo il reddito disponibile di famiglie e imprese, si riduce la domanda di beni e servizi e quindi la crescita. Tralasciamo qui una teoria piuttosto strampalata, che tuttavia periodicamente riemerge, secondo la quale l’austerità potrebbe essere “espansiva” se la riduzione della spesa pubblica, e quindi l’aspettativa di future riduzioni del carico fiscale, spingesse al rialzo consumi e investimenti privati.
L’austerità autolesionista
Un calo del nominatore, il debito, porta insomma con sé un calo del denominatore, il Pil. Se il rapporto tra i due cala o aumenta, quindi, finisce per dipendere da quanto il primo influenza il secondo, quello che gli economisti chiamano il moltiplicatore.
Se l’austerità ha un impatto limitato sulla crescita, allora la riduzione del debito sarà superiore a quella del Pil e il rapporto si ridurrà: sia pure al prezzo di un rallentamento economico, l’austerità può riportare sotto controllo le finanze pubbliche. I piani di rientro imposti dalla troika ai paesi dell’Eurozona nei primi anni Duemila dieci si basavano su quest’ipotesi e tutte le istituzioni internazionali proiettavano un impatto limitato dell’austerità sulla crescita.
La storia si è incaricata di mostrare che quest’ipotesi era erronea e che il moltiplicatore è molto elevato, soprattutto durante una recessione. Da allora i lavori empirici si sono moltiplicati, con risultati molto interessanti. Ad esempio, i moltiplicatori sono più elevati per gli investimenti pubblici (in particolare per gli investimenti verdi) e la spesa sociale ha un impatto importante sulla crescita di lungo periodo. E sono proprio queste le voci di spesa più tagliate dal governo francese nei giorni scorsi.
Fece scalpore, all’epoca della crisi greca, un mea culpa pubblico del Fondo Monetario Internazionale, che spiegò come un calcolo corretto desse moltiplicatori fino a quattro volte più elevati di quanto non si credesse prima della crisi. In nome della disciplina, la politica di bilancio in quegli anni fu prociclica, frenando l’economia quando invece avrebbe dovuto spingerla.
I piani di rientro non misero in sicurezza le finanze pubbliche; al contrario, facendo piombare quei paesi in recessione, le resero più fragili. Non solo l’austerità non fu espansiva, ma fu autolesionista. Non è un caso che in quegli anni gli attacchi speculativi contro i paesi che adottavano l’austerità si siano moltiplicati e che, se non fosse stato per l’intervento della Bce, con il whatever it takes di Draghi nel 2012, Italia e Spagna avrebbero dovuto dichiarare default e l’euro non sarebbe probabilmente sopravvissuto.
Il passato che non passa
In una lettera al vetriolo al presidente Roosevelt, che nel 1937 aveva prematuramente cercato di ridurre il disavanzo pubblico facendo piombare l’economia americana in recessione, John Maynard Keynes affermava che «il boom, non la recessione, è il momento giusto per l’austerità al ministero del Tesoro».
La crisi dell’eurozona è stata un colossale e costosissimo (la Grecia non ha ancora recuperato i livelli di Pil del 2008) esperimento naturale che ha provato quanto Keynes avesse ragione. Si può forse perdonare a Bruno Le Maire e ai molti alfieri della disciplina di bilancio la non conoscenza della letteratura accademica.
Forse gli si può anche perdonare la non conoscenza della storia economica e dei dibattiti che hanno infiammato il ventesimo secolo. Ma la coazione a ripetere errori che solo dieci anni fa hanno innescato una crisi finanziaria e rischiato di far deragliare la moneta unica è imperdonabile anche per una classe politica senza cultura e senza memoria.
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