Le crisi degli ultimi quindici anni hanno rafforzato il ruolo della Banca centrale come garante della stabilità nell’Eurozona. Importante quindi conoscere lo scenario che la Bce si aspetta per il 2025 e le politiche che intende perseguire. Una lucida analisi presentata di recente dal governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta, e il Financial Stability Review della Bce aiutano a capire prospettive e rischi.
Le crisi degli ultimi quindici anni hanno rafforzato il ruolo della Bce come garante della stabilità nell’Eurozona. Importante quindi conoscere lo scenario che la Bce si aspetta per il 2025 e le politiche che intende perseguire. Una lucida analisi presentata di recente dal governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta, e il Financial Stability Review della Bce aiutano a capire prospettive e rischi.
Come mostra il grafico qui riportato, ripreso dalla relazione del governatore, dopo 20 anni di stabilità, l’inflazione è inaspettatamente schizzata al 10 per cento, per poi tornare altrettanto rapidamente intorno al 2 attuale: lecito quindi considerare esaurito l’episodio inflazionistico.
Inutile a questo punto discernere quanto il rientro dell’inflazione sia dovuto al venir meno delle disfunzionalità nella logistica e nelle filiere produttive che avevano causato una scarsità di alcuni beni, e quanto alla politica dei tassi della Banca centrale: il grafico mostra infatti come le variazioni mensili dell’indice dei prezzi siano diventate sempre più contenute e quindi l’inflazione maggiormente prevedibile, segno di un ritorno alla normalità nelle condizioni di domanda e dell’offerta.
«Ritorno al futuro»
L’analisi del governatore evidenzia inoltre l’effetto trascinamento di alcuni prezzi di servizi che sono rivisti saltuariamente, spesso in base all’inflazione passata (assicurazioni, sanità, locazioni) e che quindi tende a sovrastimare il dato odierno dell’inflazione.
La traiettoria verso una crescita stabile dei prezzi al 2 per cento è però acquisita. I salari salgono più rapidamente dei prezzi ma la debolezza della domanda impedisce alle imprese di ribaltare sui listini i maggiori costi. Una crescita temporanea dei salari reali è inoltre necessaria perché i lavoratori possano recuperare il potere di acquisto perduto: se anche l’inflazione fosse nulla, i prezzi non scendono in valore assoluto e rimangono comunque più elevati rispetto ai livelli pre Covid.
È pertanto auspicabile che dalla prossima riunione del 12 dicembre la Bce cambi la comunicazione abbandonando la politica “dipendente dai dati, riunione dopo riunione” fin qui seguita, per quella che il governatore chiama «ritorno al futuro». Ovvero una politica monetaria improntata alle previsioni piuttosto che al presente, in modo da stabilizzare le aspettative e ridurre le incertezze che pregiudicano i piani di investimento delle imprese.
L’incertezza inoltre condiziona le scelte finanziarie delle famiglie che hanno così accumulato un risparmio precauzionale eccessivo in attività liquide, anche per via degli elevati tassi reali a breve termine, con la quota di reddito risparmiata aumentata di quasi tre punti in due anni.
Dall’inflazione alla crescita
La comunicazione della Bce dovrebbe anche chiarire che la bilancia dei rischi si è spostata dall’inflazione alla crescita. Per alcuni problemi strutturali, come la crisi profonda del modello economico tedesco, la Bce può fare ben poco.
Ma l’andamento degli indicatori di attività economica, che da due anni sono in continua discesa in tutti i paesi europei, ancora al disotto dei livelli pre Covid, e che riguardano sia il settore manifatturiero come i servizi, indica chiaramente un rallentamento ciclico.
I rischi per la crescita sono ben evidenziati anche da un altro grafico della relazione del governatore, dove si mostra come in sei degli ultimi sette trimestri la domanda interna abbia dato un contributo negativo al Pil, che così è cresciuto prevalentemente trainato dalla domanda estera: con l’Europa schiacciata tra la minaccia dei dazi di Donald Trump e l’invasione dei prodotti cinesi (oltre alla caduta del nostro export verso la Cina), la prospettiva è preoccupante.
A prescindere dal taglio dei tassi alla prossima riunione del 12 dicembre, dove uno 0,25 per cento appare scontato, è fondamentale che la Bce cambi comunicazione anche riguardo la bilancia dei rischi, abbandonando la radicata cautela riguardo la lotta all’inflazione, per chiarire che la priorità ora è la crescita.
La traiettoria dei tassi
È possibile che una guerra tariffaria con Stati Uniti e Cina porti a un aumento del livello dei prezzi, come è pure possibile un aumento del prezzo del gas (e quindi dell’elettricità) visto che l’Europa dipende maggiormente dal costo del LNG, volatile per via della facilità di dirottare le forniture verso chi è disposto a pagare di più nel mondo, in mancanza di contratti a lungo termine coi produttori americani: ma costituirebbero un aumento temporaneo dell’indice dei prezzi, non del suo tasso di crescita.
Oltra al cambio nella comunicazione il mercato auspica che la Bce fornisca qualche indicazione sulla futura traiettoria dei tassi, e quale sia il livello al quale la loro discesa potrebbe arrestarsi. Difficile però ipotizzare una svolta così radicale nella politica e nella comunicazione della Bce.
Così, in assenza di indicazioni da parte della Banca centrale, i futures quotano per settembre 2025 un tasso Euribor a tre mesi (lo preferisco al tasso Bce in quanto misura meglio il costo del credito) al di sotto del 2 per cento. Significa che ci si attende un costo reale del credito prossimo allo zero, se l’inflazione ritorna al 2 per cento, che sarebbe coerente con uno scenario di crescita anemica o stagnazione; oppure un tasso reale positivo, significando che l’inflazione può stabilizzarsi al disotto del 2.
Sono questi i due i principali rischi per la Bce: che la discesa dei tassi sia troppo poco troppo tardi, frustrando le prospettive di ripresa che ci si attende per l’anno prossimo; o che l’obiettivo del 2 per cento venga percepito come un tetto all’inflazione, il che porterebbe inevitabilmente le aspettative a stabilizzarsi al disotto del 2, causando una eccessiva deflazione come già avvenuto nel decennio precedente al Covid, con un costo reale di cui troppo spesso non si tiene conto.
La sostenibilità del debito
Nel Financial Stability Review la Bce indica nella sostenibilità del debito pubblico, unitamente al rallentamento della crescita, il principale rischio per il sistema finanziario.
Il quadro però è profondamente cambiato rispetto al passato quando erano le finanze pubbliche dei paesi “periferici”, Italia in primis, la fonte di rischio sistemico. Oggi la “periferia” non esiste più e il problema dell’enorme debito pubblico accumulato con la pandemia è generalizzato, non solo nell’Eurozona, dove tutti gli spread rispetto ai titoli tedeschi si stanno comprimendo in una banda ristretta (quelli di Spagna, Francia, Italia e Grecia sono ormai compresi in 50 punti), ma anche in UK e negli Stati Uniti, dove si prevede un disavanzo pubblico fra cinque anni superiore al 6 per cento del Pil.
La preoccupazione per l’ingente quantità di titoli di stato che dovrà essere collocata sul mercato ha spinto ovunque al rialzo il rendimento sul debito pubblico a lungo termine. Ma il vero rischio finanziario è l’impatto che i tassi elevati a lungo termine potranno avere sulla struttura finanziaria delle imprese e sulle valutazioni di Borsa.
Le imprese però sono oggi meno indebitate che in passato: si stima che nel 2025 il livello di indebitamento medio delle società quotate in Europa e negli Stati Uniti, sia piccole sia grandi, sarà nettamente inferiore alla media degli ultimi 10 anni. Così lo spread dei bond high yield (singola B) rispetto ai titoli di stato, sia in euro sia in dollari, è al livello più basso dal 2007, segno che per il mercato del credito, e quello azionario, la sostenibilità del debito pubblico non è percepita come un problema, almeno per ora. Un rischio dunque da non sottovalutare, ma neanche da enfatizzare.
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