La Bce ha appena ridotto i suoi tassi per la terza volta dello 0,25 per cento. «Stiamo rompendo il collo all’inflazione. Non è ancora completamente rotto, ma ci siamo quasi», è l’espressione alquanto cruda con cui la Presidente Lagarde ha spiegato la decisione. Per poi ripetere l’ormai tradizionale litania: «L’inflazione rimane elevata perché i salari crescono rapidamente. Siamo determinati ad assicurare che l’inflazione ritorni al nostro obiettivo del 2 per cento. Manterremo i tassi a un livello sufficientemente restrittivo per il tutto il tempo necessario a raggiungere questo obiettivo.

Per determinare il grado di restrizione continueremo a seguire un approccio che dipende dai dati che verranno resi noti, riunione dopo riunione. E quindi non ci vincoliamo a nessuna particolare traiettoria futura dei tassi». Come se ben poco fosse cambiato rispetto alle riunioni precedenti.

Le parole di Lagarde

Invece, lo scenario economico europeo è nettamente peggiorato. Lo si evince dalle dichiarazioni della stessa Lagarde in conferenza stampa: «Le informazioni che abbiamo suggeriscono che l’attività economica è più debole del previsto. Mentre la produzione industriale è stata particolarmente volatile, le indagini indicano che il settore manifatturiero si sta contraendo. Per il settore dei servizi […] gli ultimi dati evidenziano un rallentamento della crescita. Le imprese espandono gli investimenti molto lentamente, mentre quelli nel settore delle costruzioni sono in continua discesa. Le esportazioni si sono indebolite. […] Le famiglie hanno ridotto i consumi contrariamente alle aspettative. Il loro saggio di risparmio era al 15,7 per cento […] molto al di sopra del 12,9 che prevaleva prima del Covid».

Come altro si può descrivere la situazione economica se non a rischio di stagnazione, se non di recessione?

L’incognita cinese

Uno scenario che potrebbe complicarsi per via di shock peraltro menzionati dalla Lagarde. La crescita in Cina rallenta sotto il peso della crisi immobiliare che pesa sulla ricchezza delle famiglie, aumentando il risparmio precauzionale che comprime la domanda di consumi.

Ma la Cina è anche un grande mercato per le nostre esportazioni; e al tempo stesso i produttori cinesi conquistano quote di mercato in Europa per compensare la contrazione della domanda interna.

Le aspettative di misure fiscali a sostegno dei consumi sono regolarmente frustrate dal governo Cinese, tanto che si parla di “giapponesizzazione”, facendo riferimento al decennio perduto del Giappone dopo lo scoppio della crisi immobiliare all’inizio degli anni novanta.

Il perdurare delle guerre in Ucraina e Medio Oriente e i rischi geopolitici, potrebbero poi innescare uno shock energetico e un incremento duraturo nel costo dei noli marittimi; e una presidenza Trump aumentare i dazi sulle esportazioni verso il nostro principale mercato di sbocco.

La Bce ha ridotto i tassi perché il rischio maggiore non è più l’inflazione ma la crescita: solo che non può dirlo esplicitamente perché lo Statuto le assegna esclusivamente l’obiettivo della stabilità dei prezzi.

La crescita a rilento

La crescita però rientra ormai nel suo Statuto materiale, anche se in modo convoluto come quando, a precisa domanda, Lagarde ha risposto che la Bce tiene conto dell’andamento economico, ma solo nella misura in cui incide sui prezzi.

Un taglio dei tassi superiore allo 0,25, o l’annuncio di una rapida traiettoria di discesa dei tassi perché l’inflazione è ormai sotto controllo, sarebbe equivalso ad ammettere esplicitamente che il maggior rischio è ormai la crescita.

Ne consegue un’analisi incongruente sull’inflazione. Nonostante la Bce dichiari che le aspettative a medio termine sono ben ancorate al 2 per cento, giustifica il mantenimento di un politica restrittiva (il tasso sui suoi depositi al 3,25 a fronte di una inflazione all’1,7 a settembre) con la dinamica salariale: ma la crescita dei salari è una reazione ritardata che tende a recuperare il potere di acquisto perduto, ma non è causa di inflazione futura nella misura in cui le imprese non riescono a scaricare a valle i maggiori costi per via della domanda debole.

Lagarde difende il mantenimento di una politica restrittiva escludendo esplicitamente il rischio di una recessione a favore di un soft landing. Scenario condiviso dal mercato azionario che stima per l’anno prossimo una crescita del 9 per cento degli utili e 4 dei ricavi; ma che però si basa proprio sull’aspettativa che la Bce, di fronte al rischio rallentamento, tagli rapidamente i tassi completandone la discesa con la riunione del prossimo marzo.

Coerentemente si stima che si raggiungerà l’obiettivo di inflazione al 2 per cento già nel primo trimestre del 2025, rispetto alla previsione di fine anno della Bce. L’Euribor, che misura il costo del denaro, è oggi al 3,2 per cento, al di sotto del 3,40 dei prestiti della Bce, e viene quotato a 2,3 per cento sul mercato dei futures per la scadenza di marzo: ovvero gli investitori anticipano un taglio di un intero punto percentuale nei prossimi cinque mesi. Sembra quindi che al volante della politica monetaria ci sia il mercato, e sia lui a dettare i tempi alla Bce. Non significa però che il soft landing sia garantito.

I problemi della Bce

Ma se anche sarà soft landing, come speriamo, con crescita nel 2025 e inflazione al 2 per cento già a marzo, rimangono aperti dei problemi strutturali che la Bce dovrà affrontare.

Il primo è il mandato statutario che realisticamente non può essere esclusivamente l’inflazione, come l’esperienza degli ultimi mesi dimostra. Lo stesso dicasi per il tasso di cambio: da Statuto la Bce non può né deve occuparsi dell’euro, poco credibile in un’area economica in cui le esportazioni tradizionalmente contribuiscono in modo significativo alla crescita del Pil. Anche perché quando la Bce “rompe il collo” all’inflazione, lo rompe anche al tasso di cambio della moneta unica.

Crescita e tasso di cambio appartengono quindi allo Statuto materiale della Bce e in qualche modo la loro presenza dovrebbe essere resa esplicita.

Il secondo è il tasso neutrale, ovvero il tasso di interesse che la Bce ritiene coerente con un’inflazione stabilmente al 2 per cento. Se si guarda alle aspettative implicite nei prezzi di mercato, il tasso neutrale sarebbe vicino, o di poco inferiore, al 2 per cento, il che implica o che il suo livello reale sia nullo, oppure che l’inflazione si collochi mediamente al di sotto dell’obiettivo della Banca centrale.

Penso che la seconda ipotesi sia la più probabile: se infatti l’obiettivo della Bce è percepito come un tetto all’inflazione, e non una media, la crescita dei prezzi tenderà a collocarsi mediamente al di sotto del 2 per fornire un cuscinetto alla Banca Centrale in modo tale da garantirle di centrare l’obiettivo.

In questo modo però si ancorano le aspettative di inflazione al di sotto del 2, livello al quale si stabilizza la crescita dei prezzi. Esattamente quello che è avvenuto nel decennio pre-Covid. Ma che comporta un grado di restrizione eccessivo, tenuto anche conto che invecchiamento della popolazione, rischi geopolitici, de-globalizzazione, e declino della produttività suggeriscono un livello strutturale di inflazione superiore al 2.

Da ultimo tutti i governi sono alle prese con la riduzione del debito accumulato con la pandemia, e devono finanziare interamente sul mercato i deficit ancora elevati, oltre a rifinanziare i titoli in scadenza.

Ma non potranno contare sull’aiuto indiretto della Bce perché a sua volta riduce i titoli di stato in portafoglio per 7,5 miliardi al mese, e a fine anno cesserà totalmente il reinvestimento di cedole e titoli in scadenza, le uniche risorse che fino a oggi potevano essere utilizzate per eventuali interventi a sostegno del debito di qualche paese.

Anche quest’ultimo paracadute fra poco si chiuderà e in caso di crisi non rimarranno che gli Outright Monetary Transactions, che però richiedono la condizionalità del Mes: che l’Italia non ratifica. Sarebbe invece prudente dotarsi oggi degli strumenti per affrontare la prossima crisi finanziaria, per quanto remota o improbabile ci possa sembrare.

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