Le elezioni europee non sembrerebbero aver alterato gli equilibri politici a Bruxelles: la vecchia coalizione tra popolari, liberali e socialisti a guida tedesca rimane l’unica maggioranza possibile ed esprimerà il presidente della prossima Commissione, che il parlamento approverà.

Il Patto di Stabilità che governa le finanze pubbliche degli stati membri è appena stato rinnovato e la Bce è indipendente dalla politica. A livello economico, invece, molto è cambiato, e in peggio: ben poche delle politiche necessarie per tentare di chiudere il gap di produttività con gli Stati Uniti e competere efficacemente con la Cina probabilmente verranno adottate; anzi c’è il serio rischio che si vada nella direzione opposta.

Se è vero che non c’è stato un cambiamento di maggioranza del parlamento europeo, e che l’iniziativa legislativa è una prerogativa della Commissione, è anche vero che di fatto l’impulso e la direzione delle politiche europee è sempre stata determinata da accordi informali tra i governi di Francia e Germania.

L’asse franco-tedesco

In Francia, nella migliore delle ipotesi, si va verso una difficile convivenza tra il presidente Emmanuel Macron e la destra di Marine Le Pen se, come probabile, quest’ultima vincerà le elezioni politiche del prossimo 7 luglio.

In Germania, il cancelliere Olaf Scholz è alla guida di un partito socialista precipitato sotto il 14 per cento, scalzato al secondo posto dall’estrema destra di AfD forte del malessere economico, e alle prese con una crisi interna sul bilancio che vede su posizioni opposte il ministro delle Finanze, liberale, e verdi e socialisti.

Se aggiungiamo che le destre sono in coalizioni di governo in Italia, Ungheria, Olanda, Slovacchia, o hanno avuto risultati eclatanti, come in Austria, è facile immaginare che diffilmente ci potrà essere una chiara e lungimirante politica economica europea per accrescere la produttività e competitività rispetto a Stati Uniti e Cina.

Spesa improduttiva

C’è, prima di tutto, una convergenza dei partiti populisti su politiche fiscali fatte di aumenti di spesa pubblica improduttiva, alla ricerca del consenso: tra gli esempi, le promesse di riduzione dell’età pensionabile, nonostante l’invecchiamento della popolazione; i sussidi e bonus a vantaggio esclusivo dei propri elettori; o la riduzione di imposte su beni di largo consumo come la benzina, anche se mette a rischio la transizione ambientale.

Programmi di spesa pubblica per l’educazione, la ricerca, l’inclusione, la sanità, che costituiscono per un certo verso un investimento nel capitale umano e nel benessere dei cittadini e possono perciò avere un impatto sulla produttività nel lungo periodo, ma non hanno un ritorno immediato in termini di consenso, vengono invece bollati come elitari.

Inoltre, la spesa pubblica che mira al consenso è per sua natura nazionale, e fa venir meno l’interesse a mutualizzare il debito per finanziare grandi progetti comunitari per la transizione ambientale, la rivoluzione tecnologica e la difesa. Ma se questi temi vengono lasciati all’iniziativa di ciascun paese, ammesso che ci sia l’interesse, nessuno avrà mai le risorse per competere con Stati Uniti e Asia. Populismo è infatti sinonimo di nazionalismo.

Il problema non è l’austerità

Il problema non è tanto l’austerità fiscale, tradizionale cavallo di battaglia delle destre contro Bruxelles, ma la natura della spesa pubblica che viene auspicata: improduttiva e clientelare, invece che atta a sviluppare gli investimenti pubblici e il capitale sociale; con una focalizzazione nazionale invece che europea.

Il Next Generation Ue ha dimostrato che il mercato è capace di finanziare anche una quantità massiccia di debito comunitario se la sua finalità è aumentare crescita e produttività in modo credibile.

Il rischio che le politiche fiscali di molti paesi europei vadano in una direzione incoerente con la sostenibilità del debito, spiega l’immediata reazione negativa degli investitori, che hanno subito venduto titoli di stato francesi aumentandone di 30 punti in pochi giorni lo spread rispetto agli analoghi tedeschi; una reazione che però ha toccato il debito di tanti altri paesi europei, aumentando lo spread dei titoli italiani, greci e portoghesi in misura analoga, chiaro segno del rischio contagio delle politiche populistiche.

La stabilità delle finanze pubbliche europee dovrebbe essere assicurata dal Patto di Stabilità, come indica il nome stesso: la reazione negativa dei mercati chiarisce che il Patto perde di incisività nella misura in cui la Commissione, che lo governa, potrebbe non avere il pieno sostegno di Francia e Germania, o addirittura trovarsi in una situazione di contrasto.

Il nazionalismo delle destre costituirà un ostacolo ancora maggiore alla creazione di un mercato unico dei capitali, condizione imprescindibile perché si possano sviluppare imprese europee dalle dimensioni adatte a competere coi colossi americani e cinesi. Ogni impresa nazionale diventa “strategica”, il capitale straniero una minaccia agli interessi nazionali, e prevale la logica del campione nazionale.

Stesso discorso per le banche, dove i depositi dei cittadini di un paese non devono andare a finanziare le imprese, o essere investiti nei titoli di stato di altri paesi. Ogni paese ambisce a essere un centro finanziario con una propria Borsa, un mercato dei derivati e società che liquidano le transazioni: Brexit invece di favorire la creazione di un mercato dei capitali unico dell’Eurozona, erodendo la posizione di Londra, ha invece aumentato la competizione interna tra paesi dell’Area.

Il fantasma cinese

L’Europa deve anche decidere quale politica vuole adottare nei confronti della Cina: il compito spetta alla Commissione, che però sarà soggetta alle istanze delle destre che tradizionalmente perseguono il protezionismo a difesa delle imprese nazionali.

La globalizzazione, l’apertura al commercio internazionale e l’ingresso della Cina nel Wto (l’organismo internazionale che regola le pratiche e accordi commerciali tra paesi) ha portato indubbi vantaggi alla crescita globale, ma troppo squilibrati a favore della Cina.

Negli ultimi 20 anni il disavanzo commerciale dell’Europa con la Cina si è quadruplicato (220 miliardi di dollari) con le esportazioni cinesi che hanno quasi raggiunto i 500 miliardi (un quarto del Pil Italiano); e questo senza contare gli investimenti diretti di capitale.

Le destre guardano con simpatia alle barriere tariffarie erette da Donald Trump (ma perseguite anche da Joe Biden) e alle restrizioni sugli investimenti e ai trasferimenti di tecnologia. Ma l’economia americana è molto meno integrata di quella europea con la Cina, visto che per le imprese europee rappresenta un mercato da 280 miliardi; oltre a essere una fonte di investimenti diretti e in infrastrutture che però la Cina indirizza verso paesi che rompono l’unitarietà della politica europea, come nel caso dell’Ungheria, dove Byd, leader nelle vetture elettriche, avvierà un impianto produttivo, e lo stato cinese ha finanziato la costruzione dell’alta velocità con la Serbia.

La strada del protezionismo è controproducente perché rischia di scatenare una guerra tariffaria, penalizzando le tante imprese europee che dipendono dalla domanda cinese (un assaggio lo si è visto con i dazi contro il cognac francese), come evidenziato dall’opposizione delle case automobilistiche tedesche ai nuovi dazi imposti dalla Commissione alle auto elettriche cinesi.

Inoltre, il protezionismo aumenta i prezzi per il consumatore europeo, e riduce gli incentivi per le imprese a diventare maggiormente competitive, che invece dovrebbe essere la strada perseguita dall’Europa attraverso programmi comuni nei settori chiave. Costituisce infine un ostacolo in più alla transizione ambientale in Europa, aumentandone il costo, visto il predominio cinese in molti segmenti della green economy.

Il costo di un’Europa populista può essere dunque molto salato in termini di minore crescita, gap di produttività e rischi di instabilità finanziaria. Non è una valutazione o un pregiudizio politico: purtroppo è la realtà dei dati economici. Le Borse che guardano avanti lo hanno capito e in pochi giorni i titoli europei hanno perso il 5 per cento.

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