È questa la cifra di chi accede ad aiuti alimentari, pacchi distribuiti da enti del terzo settore. La loro crisi e le misure una tantum del governo dimostrano tutti i limiti di un sistema basato più sulla carità che sulla riduzione delle cause della povertà alimentare. A partire dal reddito minimo, una misura osteggiata dal governo.
L’ingresso del magazzino è ben visibile da via Palmiro Togliatti, una delle strade che attraversano la periferia est di Roma. Il caldo è soffocante, un gruppo di persone è già in fila. Uno di loro trascina un carrello della spesa vuoto. «È qui la distribuzione dei pacchi?», chiede con aria spaesata. All’interno gli addetti riempiono scatole di cartone con pasta, riso, biscotti, succhi di frutta, legumi e tonno in scatola. Gli scaffali del magazzino, però, sono quasi vuoti: «In questi ultimi mesi, gli aiuti europei che distribuiamo stanno avendo ritardi enormi, non sappiamo come fare», racconta Margherita Venditti, la responsabile del magazzino gestito da Nonna Roma, un’associazione che si occupa di contrastare povertà e disuguaglianze sul territorio romano.
Si tratta dei prodotti provenienti dal cosiddetto FEAD, il Fondo di aiuti europei agli indigenti, il principale sistema di aiuti alimentari del Vecchio continente, che in questi anni ha distribuito beni per 3,8 miliardi di euro, a cui si aggiungono quelli dei singoli Stati membri. In Italia, i fondi sono gestiti da AGEA – l’Agenzia per le erogazioni in agricoltura – con bandi di gara attraverso i quali si acquistano ingenti quantitativi di beni alimentari (dalla carne in gelatina alla passata di pomodoro) da dare poi agli «enti caritatevoli».
Il ritardo degli aiuti
Ma quando gli aiuti non arrivano, come denunciato da Nonna Roma, quando per ragioni burocratiche o amministrative, la distribuzione viene dimezzata, è un bel problema. Soprattutto in paesi come l’Italia dove la povertà alimentare continua a crescere. Secondo l’ultimo report dell’Osservatorio “Insicurezza e povertà alimentare”, nel 2022 erano 3,4 milioni di persone in condizione di insicurezza alimentare, circa il 5,7% della popolazione. Molti ricevono assistenza alimentare, ma solo quelli in grado di presentare la documentazione Isee o che sono state segnalate dai servizi sociali. «Distribuire questi prodotti vuol dire tantissima burocrazia», denuncia Margherita Venditti, «siamo così impegnati a riempire carte che non abbiamo abbastanza tempo per parlare con le persone, capire come stanno. Questa gabbia burocratica è una ulteriore frustrazione perché noi vogliamo aiutare anche chi non ha la documentazione in ordine».
Margherita e le altre volontarie mostrano gli scaffali vuoti e nei loro occhi si legge la preoccupazione di chi sa che da loro «le richieste di assistenza sono aumentate del 34% da quando è stato cancellato il reddito di cittadinanza».
Pasta al dente per risparmiare gas
Dentro questi luoghi sparsi per l’Italia c’è il racconto di una umanità intera, donne e uomini che hanno perso il lavoro, stranieri, persone sole, anziani. Una di loro, una donna che vive esclusivamente con la pensione minima, è talmente abituata a cercare stratagemmi per sopravvivere, che ha iniziato a scegliere la pasta in base ai minuti di cottura indicati sulla confezione: meno sono, minore sarà il tempo sul fuoco, e quindi il costo della bolletta.
Il sistema di assistenza alimentare in Italia è portato avanti dallo sforzo enorme di una miriade di associazioni che fanno un lavoro quotidiano che, però, si sostiene solo se le donazioni arrivano. Quando i prodotti scarseggiano, come in questi mesi, le associazioni iniziano a presidiare ancora di più i supermercati, dove i clienti possono acquistare qualche prodotto in più e lasciarlo in un apposito carrello che, una volta riempito, viene poi consegnato alle associazioni.
E poi ci sono i surplus che arrivano dalle aziende: «Il cibo che distribuiamo – racconta Monica Tola, direttrice del Banco Alimentare del Lazio – per il 40% viene proprio dalle donazioni dei surplus delle industrie agroalimentari. Purtroppo, però, questo tipo di donazioni sta diminuendo perché fortunatamente le aziende stanno imparando a sprecare meno ma questo rende sempre più complicato il nostro lavoro». Così, al ritardo delle istituzioni europee e nazionali si aggiunge la riduzione delle eccedenze alimentari e, quindi, delle donazioni.
L’equivoco dello scarto ai poveri
Negli ultimi anni si è creato un terribile fraintendimento, si è iniziato a pensare di poter risolvere il problema della povertà redistribuendo le eccedenze alimentari, ovvero quel cibo ad un passo dallo spreco. Un pensiero che ha raggiunto il culmine e la sua legittimazione con la legge n. 166 del 2016, la cosiddetta Legge Gadda, che ha favorito (giustamente) le donazioni di surplus alimentari a scopi solidali. Nonostante molti considerino questa pratica una soluzione win-win, con la quale si riduce lo spreco e la povertà in un colpo solo, sul piano pratico porta avanti l’idea che i poveri, in quanto tali, debbano accontentarsi di tutto, anche dello scarto. Ma, soprattutto, non è una soluzione che aggredisce in maniera strutturale il problema. E misure del genere non se ne vedono all’orizzonte.
La social card di Lollobrigida
Sicuramente non sarà la social card rilanciata dal ministro Lollobrigida la risposta alla povertà. Come denunciato da Terra!, già la prima edizione aveva mostrato molti limiti: «La carta elettronica non è stata un argine alla povertà e, infatti, il Governo aveva dovuto aggiungere anche un piano contro i rincari dei prodotti di largo consumo, il trimestre anti-inflazione, con cui i supermercati hanno venduto una parte di loro prodotti a prezzi ribassati».
Ora il governo l’ha rilanciata in chiave elettorale – non a caso è stata lanciata dal ministro Lollobrigida a pochi giorni dalle elezioni europee – aumentando di qualche euro dotazione economica, ma si tratta sempre di un aiuto una tantum, che somiglia molto a quel «se non hanno più pane, che mangino brioche», la celebre frase attribuita (a dire il vero impropriamente) alla regina Maria Antonietta. Perché, in fondo, queste misure una tantum, così come il modello di aiuti alimentari, in realtà dimostrano che non si sta agendo con misure strutturali: «Dobbiamo mettere le persone nella condizione di avere un reddito, evitando quindi di dover richiedere un pacco», sostiene con forza Sara Fiordaliso, una delle responsabili di Nonna Roma.
Le istituzioni politiche, però, sembrano preoccupate solo di fornire aiuti di questo tipo, abbandonando le leve della politica economica, perché è più facile incaricare gli enti benefici di preoccuparsi della povertà, piuttosto che affrontarla alla radice. Sembra che basti stanziare denaro, scrivere bandi di gara o fare accordi con i supermercati per le donazioni dell’invenduto. Tutto bene, ma chi si pone il problema di mettere le persone in condizione di padroneggiare il proprio futuro? In una situazione così grave è imperativo continuare a distribuire pacchi ed essere messi nelle migliori condizioni possibile per farlo. Tuttavia, non bisogna dimenticare che la sfida reale, quella di cui chiedere conto alla politica, al governo e alle istituzioni in generale, è quella di trovare soluzioni strutturali, a partire dal reddito minimo.
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