Lo sbarco che ha liberato l’Europa è stato anche un capolavoro logistico. Da operazioni collettive come quella è nata la catena di distribuzione
Il 6 giugno 1944 le forze alleate lanciarono l’Operazione Overlord, nota colloquialmente come D-Day o Sbarco in Normandia. Il successo dell’operazione costituì un decisivo punto di svolta per il teatro bellico dell’Europa occidentale. Un momento storico che è doveroso non dimenticare, oggi che ne ricorre l’ottantesimo anniversario e c’è una nuova guerra in Europa. In tutte le opere che ricordano quel giorno, dalle fotografie di Robert Capa a film come Il giorno più lungo e Salvate il soldato Ryan, giustamente si sottolinea il coraggio dei soldati alleati che sbarcarono sulla spiaggia di Omaha tra le raffiche delle mitragliatrici tedesche.
Ciò che resta sullo sfondo è la dimensione collettiva, e per certi versi biblica, dell’operazione. Le cifre lasciano a bocca aperta: 4.300 navi e 2.600 mezzi da sbarco, operati da un personale di 150.000 uomini, che trasportarono 130.000 soldati, 20.000 veicoli e centinaia di milioni di tonnellate di materiali di vario tipo (munizioni, viveri, ecc.) sulle spiagge francesi. L’organizzazione del D-Day fu in primis un grattacapo logistico. La cui soluzione promosse innovazioni, circa la gestione di operazioni complesse, capaci di influenzare il successivo sviluppo non solo dei processi militari, ma anche di quelli industriali.
Il retroterra logistico dell’Operazione Overlord fu, come noto, posto in Inghilterra. Da subito ciò mise gli stati maggiori alleati di fronte al problema di coordinare l’arrivo di una quantità enorme di persone e cose – in molti casi provenienti da continenti diversi dall’Europa – in un preciso punto del pianeta.
Era la prima volta che si tentava di fare qualcosa del genere su scala intercontinentale, e da quell’esperienza i genieri degli eserciti impararono lezioni che, divenuti manager nel Dopoguerra, avrebbero trasferito al settore delle produzioni. La creazione delle competenze logistiche che, nell’ultimo mezzo secolo, hanno accompagnato i sistemi industriali nella transizione dal modello fordista di produzione di massa a quello delle supply chain della globalizzazione, cominciò a tutti gli effetti durante la guerra, nel crogiolo di operazioni come lo sbarco in Normandia.
Per non parlare del contributo di discipline come la cosiddetta “operations research” (“ricerca operativa”), una scienza dell’ottimizzazione matematica dei flussi di materiali (e di dati) all’interno dell’organizzazione e del funzionamento di sistemi complessi. Nata nell’Inghilterra della Prima guerra mondiale, essa venne elevata allo stato dell’arte dagli americani negli anni Trenta e Quaranta, e impiegata in modo intensivo per massimizzare l’efficienza dei processi di approvvigionamento, trasporto e distribuzione della seconda guerra mondiale.
La carriera di McNamara
Il battesimo del fuoco della ricerca operativa avvenne alle spalle di operazioni colossali come il D-Day, e la sua maturazione come disciplina risulta tutt’oggi decisiva nei processi del cosiddetto just-in-time, ovvero la produzione “on demand” e a inventario zero (o quasi), che ha permesso di realizzare sistemi industriali meno “spreconi” rispetto a quelli della produzione di massa (ma più fragili agli imprevisti come abbiamo scoperto col Covid).
Numerosi “maghi” della ricerca operativa della Seconda guerra mondiale avrebbero in seguito lavorato alla trasformazione dei processi industriali delle più grandi aziende americane.
Uno di loro, Robert McNamara, sarebbe addirittura divenuto presidente della Ford, e in seguito segretario della Difesa durante la Guerra del Vietnam (dove sostenne lo sviluppo del container, altro fondamentale tassello logistico delle moderne supply chain) nonché infine, negli anni Settanta, architetto finanziario della globalizzazione in qualità di presidente, estremamente proattivo, della Banca mondiale. Un curriculum, il suo, che dice quasi tutto ciò che c’è da sapere sulla storia economica del secondo Novecento.
Col tempo le metodologie della ricerca operativa divennero bagaglio canonico di tecnici e manager impiegati nei campi più disparati: dalle teorie dell’informazione alla finanza, dalla matematica del caos alla logistica. Dalla convergenza di queste discipline sul terreno comune della ricerca operativa nacque una più sofisticata sensibilità per i dati e una inedita capacità di trattarli e valorizzarli in senso economico.
Grazie a tale sensibilità che – lo ribadiamo – si affinò sulle grandi mappe della Seconda guerra mondiale, col tempo emersero nuovi modi di concepire il valore, e dunque il potenziale profitto, celato in processi che un tempo erano contabilizzati soltanto come dei costi.
Non appena questa sensibilità poté attingere alle potenzialità algoritmiche di computer sempre più potenti e interconnessi, nacquero nuovi modelli di azienda in cui centrale era la coordinazione e il controllo di enormi flussi di cose e materiali e la loro trasformazione in moli di dati sempre più grandi e precise. Una di esse ha finito per diventare sinonimo di efficienza logistica nella nostra epoca. Si chiama Amazon.
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