L’ad di Stellantis potrebbe ricevere secondo indiscrezioni una buonuscita di 100 milioni di euro, nel 2023 ne ha guadagnati 36,5, ben 518 volte la media dei dipendenti. Per un top manager in Italia bastano meno di sei giorni per guadagnare come un operaio in un anno. E i milionari sono 28 in più rispetto al 2022
C’era una volta il «capitalismo buono». Quello dell’impresa come «bene sociale» di cui parlava Adriano Olivetti. E quello in cui, sempre a detta dell’imprenditore piemontese simbolo di successo di un’industria italiana che fu, «nessun dirigente, neanche il più alto in grado», dovrebbe «guadagnare più di dieci volte l’ammontare del salario più basso».
Era un’altra epoca. Sono lontani i tempi in cui l’amministratore delegato della Fiat Vittorio Valletta, negli anni del boom economico italiano, guadagnava 12 volte il salario di un operaio. Eravamo nel ventennio dopo la seconda guerra mondiale. Ora il ceo più pagato al mondo, Elon Musk, incassa 56 miliardi di dollari (anche se il 3 dicembre un tribunale del Delaware lo ha bloccato perché «eccessivo e ingiusto»). E in Italia un top manager guadagna anche fino a 649 volte in più di un operaio.
Lo stipendio di Tavares
L’ultima polemica ha riguardato l’amministratore delegato dimissionario di Stellantis Tavares, che ha lasciato la guida della multinazionale ma che non andrà via a mani vuote: secondo indiscrezioni si metterà in tasca circa 100 milioni di euro di buonuscita; Stellantis ha smentito questa cifra senza indicare quella reale. Un «Tfr» che non piove dal cielo ma che è parametrato allo stipendio che ha incassato dal gradino gestionale più alto dell’ex Fiat.
Lo scorso anno Tavares è stato il più ricco manager dell’auto al mondo: nel 2023 ha ricevuto un compenso totale di 36,5 milioni di euro (lordi e non tutti in liquidità), il 55 per cento in più rispetto al 2022, quando era stato superato da Mary Barra della General Motors. E se da una parte sono aumentati i dividendi distribuiti agli azionisti – da 4,2 a 4,7 miliardi di euro, su un totale di 23 miliardi in quattro anni – dall’altra sono scese le somme pagate ai dipendenti per incentivi e premi: 1,86 miliardi nel 2023 contro i 2,05 dell’anno precedente.
Se nel 2022 Tavares aveva guadagnato in un giorno quello che un dipendente medio di Stellantis guadagna in un intero anno, nel 2023 al manager portoghese gli è bastata mezza giornata, perché ha guadagnato ben 518 volte la media dei dipendenti. L’ultimo stipendio che Sergio Marchionne ha ricevuto dall’ex Fca, nel 2017, è stato di 9,7 milioni di euro: 437 volte quello di un metalmeccanico.
Diseguaglianze come un secolo fa
È giusto – si dirà – che un top manager guadagni molto di più di un suo dipendente. Sono le regole del mercato, ma secondo molti economisti diventa un problema se questa forbice si allarga troppo, come avvenuto negli ultimi decenni. Non siamo più nell’epoca storica della divisione binaria tra capitale e lavoro, ma secondo molti economisti una diseguaglianza troppo elevata finisce per essere deleteria per la stessa economia.
Gli anni Ottanta, e le vittorie di Reagan negli Stati Uniti e di Thatcher nel Regno Unito, hanno segnato un giro di boa nella storia della diseguaglianza, con il «ciclo socialdemocratico» che ha fatto capolino e con una forbice tra ricchi e poveri che è ripresa a correre velocemente. Fino a oggi, dove le diseguaglianze nel mondo toccano livelli simili a quelli di cento anni fa. Uno studio dell’Economic Policy Institute dimostra che in 40 anni, dal 1978 al 2018, gli incassi dei ceo e dei manager sono cresciuti rispettivamente del 940 e del 339 per cento, mentre quelli di un lavoratore tipo solo l’11,9.
L’Italia unico Paese Ue con stipendi più bassi
Secondo un report di Oxfam, le cinque persone più ricche al mondo dal 2020 hanno raddoppiato le proprie entrate, mentre quasi cinque milioni di persone sono più povere rispetto al 2019. Questa tendenza riguarda anche l’Unione europea, dove secondo il World Inequality Lab il 10 per cento della popolazione ha in tasca il 35 per cento della ricchezza del proprio Paese, e dove l’1 per cento più ricco detiene più dell’11 per cento del reddito totale.
In questa classifica, l’Italia si posiziona al sesto posto tra i 27 Stati Ue con il divario più ampio: l’1 per cento possiede il 13,6 per cento del reddito nazionale. Il nostro Paese, poi, secondo l’Ocse è l’unico in Europa in cui gli stipendi annuali medi sono scesi del 2,9 per cento invece di aumentare. E tra gli Stati del G20, l’Italia è quello dove le retribuzioni si sono ridotte in maniera più pesante dal 2008, l’anno della grande crisi economica, al 2022, l’anno dell’inflazione a due cifre: in questo arco di tempo, secondo i dati dell’agenzia Onu per il lavoro (Ilo), i salari reali si sono contratti del 12 per cento.
Bastano sei giorni per guadagnare come un operaio
Tornando al rapporto tra i salari dei top manager e quelli degli operai, c’è un giorno nel calendario – il Fat Cat Day, invenzione britannica – in cui i dirigenti raggiungono i salari medi dei propri dipendenti. Negli ultimi decenni si è avvicinato sempre più all’inizio dell’anno. Secondo l’Osservatorio Job Pricing, ai ceo in Italia nel 2024 sono bastati 5,77 giorni per raggiungere la busta paga di un lavoratore «normale». Che, tradotto, significa che prima della fine delle festività natalizie un top manager si mette in tasca la somma con cui un suo dipendente medio vive per un anno.
Il tempo è l’altra faccia della medaglia del rapporto tra salari, il cosiddetto pay ratio. Quarantacinque anni fa, nel 1980, gli amministratori delegati più ricchi in Italia avevano uno stipendio 45 volte maggiore rispetto a un loro dipendente. Negli ultimi anni questa distanza è aumentata enormemente.
I dati sono dell’Osservatorio sui lavoratori dipendenti dell’Istat. L’incasso dei primi dieci manager italiani, nel 2008, era di 6,41 milioni di euro: 416 volte il salario medio di un operaio. Dodici anni dopo, nel 2020, è stato di 9,59 milioni, cioè 649 stipendi medi da operaio. Sempre nello stesso arco di tempo si è allargata anche la forbice tra dirigenti intermedi e operai: se nel 2008 il rapporto era 1 a 8,3, nel 2020 è stato 1 a 10.
Gli stipendi dei top manager in Italia
Gli stipendi dei top manager salgono e scendono per definizione perché sono legati al raggiungimento di obiettivi aziendali, bonus e azioni. Guardando alla classifica elaborata dal Sole 24 Ore, calcolata al netto dei «fringe benefit», salta subito all’occhio come il numero dei manager di società quotate in borsa che hanno guadagnato più di un milione di euro nel 2023 sia aumentato: sono 165, erano 28 in meno nel 2022.
Dopo Tavares, saldamente sul gradino più alto del podio, c’è Massimo Della Porta. Il presidente di Saes Getters – non più quotata dallo scorso luglio – è secondo con 21,14 milioni. Seguono Miuccia Prada e Patrizio Bertelli, marito e moglie proprietari di Prada, con 19,2 milioni a testa (uno in più rispetto al 2022). Quinto e sesto posto per Marco Tronchetti Provera, vicepresidente di Pirelli, e per Giovanni Tamburi, presidente e ad di Tamburi investment partners, rispettivamente con 18,5 e 15,3 milioni di euro.
Il primo manager pubblico è stato Claudio Descalzi, ad di Eni, undicesimo con 10,3 milioni. Anche nell’azienda fondata da Enrico Mattei si è allargata la forbice tra i dipendenti e i vertici del gruppo. Il rapporto tra i compensi del manager e i salari medi dei dipendenti era uguale a 97 nel 2020, a 138 nel 2021 e a 137 nel 2022.
Il secondo è l’ex ad di Terna Stefano Donnarumma con 6,6 milioni (ma è inclusa la buonuscita di 4,7 milioni), mentre il primo banchiere in classifica – quattordicesimo sul totale – è Andrea Orcel, ad di Unicredit e oggi al centro delle cronache per aver messo nel mirino Banco Bpm, lo scorso anno ha guadagnato 9,7 milioni di euro.
Musk, uno stipendio «eccessivo e ingiusto»
E dall’altra parte del mondo? Anche negli Stati Uniti in questi giorni gli stipendi a diversi zeri sono finiti al centro delle polemiche. Elon Musk non può essere preso a paragone: è un’eccezione statistica. Ma fare i conti in tasca all’uomo più ricco del mondo, patron di Tesla e SpaceX e ora braccio destro di Trump, è un buon modo per comprendere la direzione che ha preso il capitalismo in questi ultimi anni. Una strada molto lontana da quella immaginata da Olivetti.
Il 3 dicembre la giudice Kathaleen McCormick del tribunale del Delaware ha bloccato per la seconda volta, dopo un’analoga decisione nello scorso gennaio, la retribuzione da 56 miliardi di dollari (comprensivi di azioni e benefit) percepita da Musk perché «eccessiva e ingiusta». Lo scorso giugno gli azionisti avevano ripristinato lo stipendio, approvato per la prima volta nel 2018, ma per la sezione della corte americana che si occupa di diritto societario la negoziazione con il cda sarebbe stata «profondamente carente a causa dei legami stretti» tra gli stessi consiglieri e il patron di Tesla: un «amministratore delegato superstar» in grado di condizionare le votazioni. «Gli azionisti – ha replicato Musk su X – dovrebbero controllare i voti delle società, non i giudici».
Musk a parte, negli Stati Uniti è in vigore dal 2010 una legge che impone alle società quotate di rendere pubblica la differenza tra i salari. Nel 2020, secondo l’America Federation of Labour, lo stipendio medio degli ad delle aziende quotate allo S&P 500 è stata di 299 volte in più rispetto a quella mediana dei lavoratori. Ma le eccezioni non mancano: in quell’anno il ceo di Aptiv Plc, Kevin Clark, ha guadagnato 5.294 volte lo stipendio mediano, David Goeckeler 4.934, Sonia Syngal, di The Gap, 3.113.
Secondo un rapporto del Congressional Budget Office, oltreoceano il 10 per cento delle famiglie più ricche detengono il 60 per cento di tutta la ricchezza, rispetto al 56 per cento del 1989. E l’1 per cento più ricco il 27, quando 25 anni fa deteneva il 23.
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