Il governo ha rimandato l’imposta sulle bevande zuccherate. Già posticipata sette volte, scatterà a luglio 2025: su aranciate e succhi di frutta si applicherà un prelievo di 5 centesimi. È un modo per scoraggiarne il consumo e ridurre il rischio di obesità e diabete. Critiche le imprese, che potrebbero aumentare i prezzi sugli scaffali. I paesi che hanno adottato la tassa e l’esempio virtuoso del Regno Unito
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Alla fine la sugar tax slitta di nuovo. Dopo giorni di scontro dentro il governo, il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha evitato lo strappo di Forza Italia, sulle barricate contro l’entrata in vigore della tassa a partire da questa estate. Niente luglio 2024, come prevedeva un emendamento del governo al decreto Superbonus, né luglio 2026, come suggeriva (per errore) la relazione tecnica della ragioneria dello stato: la premier Giorgia Meloni ha scelto di rinviare l’imposta sulle bevande zuccherate – varata dal governo Conte II – al 1° luglio 2025, con aliquota ridotta per il primo anno e piena applicazione dal 2026.
Per il primo anno la tassa sarà di 5 centesimi al litro per le bibite zuccherate e di 13 centesimi al chilogrammo per i prodotti zuccherati “previa diluizione”. Poi passerà rispettivamente a 10 e 25 centesimi nel 2026. Un rinvio per cui servono almeno 70 milioni di euro: risorse che secondo Forza Italia possono essere ricavate dal Fondo per interventi strutturali di politica economica, mentre la Lega vorrebbe alleggerire alcune missioni internazionali. È stata invece posticipata al 2026 la plastic tax, l’imposta sui prodotti di plastica monouso che adeguerà l’Italia alla direttiva europea del 2019.
Una tassa contro l’obesità
Ma quali sono le bevande interessate e su chi ricadrà la spesa finale? La sugar tax, chiamata anche soda tax, è un’imposta sulle bibite zuccherate che mira a contrastare l’obesità e altri problemi legati al consumo di zuccheri. I prodotti penalizzati sono le bevande gassate (Coca Cola, aranciata, gassosa), i tè zuccherati, le bibite energetiche e i succhi di frutta. La misura intende scoraggiarne il consumo per ridurre il rischio di obesità e diabete, e limitare l’impatto di queste patologie sul sistema sanitario nazionale.
A differenza degli zuccheri presenti nel cibo, infatti, quelli assunti per via liquida entrano nel corpo rapidamente, a un ritmo che sovraccarica pancreas e fegato. Questa dinamica può portare all’insorgenza di diabete e infarti: uno studio dell’American Diabetes Association ha rivelato che il consumo di una o due bevande dolci a pasto aumenta del 26 per cento il rischio di avere una forma di diabete. Inoltre, per ogni bibita zuccherata assunta al giorno il pericolo di sviluppare malattie cardiache cresce del 10 per cento.
Contro la tassa si schierano da sempre le imprese del settore, le cui pressioni hanno contribuito a ritardarne l’introduzione per ben sette volte. Assobibe, l’associazione di Confindustria che riunisce marchi come Coca Cola, Red Bull e Sanpellegrino, stima che la sugar tax porterà una contrazione delle vendite del 16 per cento, con tagli agli investimenti e ai posti di lavoro. E a un aumento dei prezzi per i consumatori, dato che le aziende scaricheranno parte dell’imposta sui prodotti finali.
«Il comparto è fatto da piccole e medie imprese che producono eccellenze del Made in Italy come aranciate, chinotti e cedrate. Con una tassa del genere si mettono a rischio 5mila posti di lavoro», ha detto Giangiacomo Pierini, presidente di Assobibe. Preoccupazioni condivise da tante sigle, da Confagricoltura fino a Coldiretti, e anche dai sindacati. Per la Uila-Uil (Unione italiana dei lavori agroalimentari) c’è il rischio di «una riduzione dei consumi interni e dell’export, con ricadute negative su produzione e occupazione».
50 paesi e alterne fortune
La tassa sulle bibite, del resto, è oggetto di dibattito in molti paesi, con i grandi produttori che si oppongono e le associazioni dei medici – su su fino all’Oms – che la sostengono apertamente. Oggi sono oltre 50 gli stati che prevedono un’imposta sugli zuccheri: in Europa, accanto a pionieri come Norvegia e Finlandia, l’hanno adottata Francia, Spagna, Polonia e Ungheria. Dall’altra parte dell’Oceano, l’esempio è stato seguito da Cile e Messico (dove i consumi sono calati del 12 per cento).
Uno dei primi paesi con la soda tax è stata la Danimarca, che però l’ha abbandonata dieci anni fa: per evitare il costo maggiorato, ai consumatori bastava andare in Germania o Svezia e comprare le bibite a un prezzo inferiore. Più fortunato il caso francese. Una prima tassa sulle bevande è stata adottata nel 2012, con François Hollande all’Eliseo. Analisi di mercato successive hanno mostrato che le vendite sono diminuite, seppur di poco, interrompendo una lunga tendenza di crescita.
Ma l’esempio più virtuoso viene dal Regno Unito, dove l’adozione di un’imposta sulle bibite zuccherate risale al 2018. La Soft drinks industry levy è diversa da quelle applicate nel resto del mondo, sia nella finalità che nella struttura. Non si rivolge ai consumatori quanto ai produttori, che sono spinti a ridurre il contenuto di zucchero. Per questo la tassa è proporzionata alla quantità di zuccheri che c’è nelle bibite: più sono dolci e maggiore è l’aliquota applicata alle imprese.
Come previsto, alcuni marchi del settore (come la scozzese Irn-Bru) hanno tagliato la percentuale di zucchero per pagare un’imposta più leggera; anche chi continua a consumare bevande di questo tipo ne ha quindi tratto beneficio. Inoltre, l’aumento del prezzo delle bibite si è riversato solo in piccola parte sui consumatori: per quelle contenenti da 5 a 8 grammi di zucchero ogni 100 millilitri è stato trasferito un terzo del prelievo.
Ma la tassa ha funzionato o meno? Secondo una ricerca dell’Università di Cambridge, pubblicata su Plos Medicine, questo meccanismo ha portato a una riduzione dell’obesità dell’8 per cento nelle ragazzine tra i 10 e gli 11 anni. Si tratta di 5.200 casi di obesità in meno ogni anno, con una tendenza più evidente nelle aree povere e nelle giovani con obesità grave. Nei ragazzi e nei bambini più piccoli, invece, l’impatto della sugar tax è stato marginale.
Non si può piacere a tutti
Gli studi condotti finora, più in generale, segnalano la sostanziale efficacia della tassa, ma i giudizi non sono unanimi e non mancano critiche sotto diversi aspetti. Chi contesta la norma la giudica un’imposta regressiva, il cui impatto economico pesa soprattutto sulle fasce di reddito basse. Un argomento che può anche essere rovesciato: disincentivando il consumo di un bene dannoso per la salute si crea un vantaggio a chi è colpito dalla misura.
Altri dubbi riguardano la possibile estensione della soda tax a prodotti dolciari solidi, come gli snack energetici e i biscotti. Una ricerca dall’Università di Glasgow, a questo proposito, ha dimostrato che colpire soltanto le bibite gassate può indurre i consumatori a sottovalutare l’eccesso di grassi nella loro dieta. O anche spingerli ad aumentare il consumo di cibi dolci e salati per “compensare” la mancanza di bevande gassate.
Dal punto di vista politico, l’imposta è invece criticata perché implica un forte intervento pubblico nella vita dei cittadini. «È espressione di uno “stato balia” che mira a orientare i consumi dei singoli», ha suggerito il Financial Times. Si spiega anche così la contrarietà di partiti come Forza Italia e Italia viva, o la bocciatura del virologo Roberto Burioni: «Serve cultura alimentare, non una tassa che colpisce gli zuccheri. Possiamo tassare pure le torte, ma se qualcuno se le fa in casa tassiamo anche il compleanno?».
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