Ci si attende che la Bce taglierà per la prima volta i tassi nella riunione della prossima settimana. Una decisione scontata che però non eliminerà l’incertezza sul futuro corso della politica monetaria.

Quale sarà la traiettoria che la Bce vorrà imprimere ai tassi dopo giugno? Gli economisti si attendono in media due ulteriori tagli per fine anno che porterebbero il tasso sui depositi Bce dall’attuale 4 al 3,25 per cento. Ma sono aspettative che ormai cambiano in continuazione.

La Bce non aiuterà a dissolvere l’incertezza perché è prevedibile che ribadirà la data dependency, ovvero valuterà il da farsi sulla base dei dati che verranno man mano resi noti: un’implicita ammissione dell’inaffidabilità delle proprie stime sull’inflazione futura.

Ancora più rilevante l’incertezza su quale debba essere per la Bce il livello dei tassi una volta che l’inflazione abbia raggiunto il 2 per cento.

Su questo punto le aspettative si dividono equamente tra 2,5 e 2,25 per cento.

Rischi di lungo periodo

Questo dato è doppiamente importante perché indica quale debba essere secondo la Bce il tasso reale, cioè al netto dell’inflazione, coerente con la crescita potenziale dell’economia, capace quindi di assicurare l’equilibrio tra domanda e offerta; oltre a esprimere il convincimento che l’inflazione di lungo periodo possa stabilmente ritornare al 2 per cento.

Ci sono molti dubbi su quest’ultimo punto: invecchiamento della popolazione, rischi geopolitici, deglobalizzazione e barriere tariffarie, costi della transizione ambientale, aumento delle spese per la difesa sono infatti tutti elementi che potrebbero finire per aumentare strutturalmente l’inflazione nel lungo periodo.

C’è poi il problema di quale sia l’inflazione rilevante per la Bce: l’indice armonizzato europeo dei prezzi al consumo (2,6 per cento a maggio)? O il dato core, al netto di energia e alimenti (2,9)? Il costo dei servizi, unica fonte di inflazione in questo momento (4 per cento), visto che la crescita dei prezzi dei beni è ferma allo 0,8?

La politica monetaria è unica per tutti i paesi dell’Eurozona, ma è corretto considerare l’inflazione dell’area quando a maggio era lo 0,8 per cento in Italia, ma in Belgio arrivava al 4,9 per cento? Oppure è la dinamica dei salari a guidare le decisioni della Bce, anche se il tradizionale meccanismo di trasmissione attraverso il quale l’aumento dei tassi dovrebbe frenare l’inflazione non corrisponde alla realtà dei fatti.

L’aumento dei tassi, oltre a tagliare il credito al consumo e i mutui, dovrebbe infatti produrre una stretta creditizia che comprime i margini delle imprese, che a loro volta riducono investimenti e occupazione e contengono il costo del lavoro, frenando la domanda aggregata. Ma niente di tutto questo è successo.

Euro debole

Il taglio della Bce anticipa poi quello della Federal Reserve, che però non si prevede inizi il suo ciclo di ribassi prima del prossimo anno. C’è quindi il rischio che l’assenza di sincronizzazione tra le due banche centrali indebolisca l’euro rispetto al dollaro, aumentando l’inflazione importata, visto che energia e materie prime sono espresse nella divisa americana.

Anche se il tasso di cambio non è un obiettivo della Bce, l’euro debole costituirà un vincolo alla politica monetaria?

Sono davvero troppi gli interrogativi che alimentano un’incertezza potenzialmente dannosa per l’economia e per i mercati.

Le decisioni di investimento hanno infatti bisogno di chiarezza su quale sarà il costo del denaro nel lungo periodo. E la data dependency spinge i mercati a reagire eccessivamente a ogni nuovo dato, nel tentativo di anticipare quale sarà la reazione della Bce a quel dato.

Una volatilità pericolosa perché il rischio di shock finanziari è sempre dietro l’angolo.

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