Dopo il 1980 sulla politica industriale era calata una specie di damnatio memoriae. In parte dovuta all’illusione liberista che il mercato, con un minimo di semplici regole e una solida garanzia dei diritti di proprietà, sarebbe sempre in grado di coordinare in maniera ottimale le scelte dei soggetti economici privati, o almeno di farlo molto meglio di qualsiasi decisore pubblico, dipinto come incapace di prevedere e scegliere e comunque guidato dai propri interessi personali, quando non proprio corrotto.

In parte, la damnatio era anche frutto delle distorsioni che la politica industriale aveva subito (e non solo in Italia), quando si era risolta nel costoso salvataggio di imprese fallimentari e nella distribuzione di sussidi a singole imprese o interi settori, selezionati quasi sempre con gli occhi rivolti al passato.

L’illusione liberista è da tempo caduta, travolta dalla lunga crisi seguita al fallimento di Lehman Brothers nel 2008 e ancor più disvelata dall’incapacità dei mercati di intraprendere spontaneamente la transizione verde necessaria a contrastare i cambiamenti climatici in atto, peraltro per lo più provocati proprio dal fatto che i soggetti privati sono stati liberi di ignorare l’impatto della loro attività sull’ambiente.

La politica industriale è stata riscoperta, qualche volta invocando l’urgenza di promuovere campioni nazionali (o magari europei), con accenti di fastidio nei confronti della tutela della concorrenza e dei troppi vincoli della regolamentazione.

Claudio De Vincenti – economista di vaglia e con una esperienza diretta di politica industriale in qualità di sottosegretario e poi viceministro dello Sviluppo economico, sottosegretario alla presidenza del Consiglio e infine ministro per la Coesione territoriale e il Mezzogiorno – traccia con chiarezza gli obiettivi, i limiti e gli strumenti della politica industriale in un libro di recentissima pubblicazione per i tipi de Il Mulino, dal titolo Per un governo che ami il mercato.

Il libro mette bene in luce come sia destinata al fallimento una politica che si concentri solo sulla correzione dei difetti del mercato, senza tenere in adeguato conto delle reazioni dei soggetti di mercato agli interventi del governo, anche quando animati dalle migliori intenzioni (il che non sempre è vero, naturalmente).

Regole e concorrenza

Il governo – sostiene De Vincenti – dovrebbe sempre fornire un’“ancora” ai comportamenti di mercato (sia attraverso la tutela della concorrenza che attraverso la regolamentazione diretta, quando necessaria), ma anche un “timone”, per orientare e integrare le scelte di investimento in quelle aree (per esempio la transizione verde, la ricerca e sviluppo) e di localizzazione in quei territori dove i mercati (guidati dalle prospettive di profitto nel breve periodo, in condizioni di incertezza e di carenze informative) non spingerebbero le imprese a inoltrarsi.

La politica industriale è questo “timone”. Proprio come il timone di una barca deve interagire con le correnti che agitano il mare, il governo deve interagire con le imprese, cosciente di avere alcune informazioni che esse non hanno, ma anche di non disporre di tutte le conoscenze che le imprese hanno. Un po’ di reciprocità nell’amore tra governo e mercati ci vuole: anche le imprese devono accettare che il governo può introdurre nel gioco qualcosa che esse non hanno (e non si tratta solo di erogazione di sussidi).

La politica industriale, perciò, non deve risolversi in sterile dirigismo. E non deve neanche mai perdere di vista gli obiettivi, e l’erogazione di risorse dovrebbe essere sempre condizionata a comportamenti coerenti con quegli obiettivi. Ma, soprattutto, il governo non deve perdere di vista che la politica industriale può influire sul livello della concorrenza e che, a sua volta, la tutela della concorrenza può aiutare la politica industriale a essere più efficace.

Chi invoca l’indebolimento della tutela della concorrenza e della regolamentazione per far posto alla politica industriale non fa un buon servizio alla politica industriale. Da ultimo, ma non perché meno importante, il governo dovrebbe sempre stare molto attento agli effetti distributivi e di potere delle politiche industriali. Un’economia magari più efficiente ma dove redditi, ricchezze e potere sono più concentrati in poche mani non coincide con una società più libera e più democratica.

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