Come sottolineato da Francis Fukuyama, la prima presidenza Trump poteva considerarsi un’aberrazione, ma la seconda no perché questa volta la maggioranza dei cittadini lo ha votato conoscendo perfettamente chi era, anzi lo ha votato proprio per questo; e concesso un potere incontrastato con il controllo di Senato e Congresso. Trump sarà quindi in grado di attuare il suo radicale piano economico, e diventa prioritario capire quali saranno le conseguenze per l’Europa della Trumpeconomics.

Uno dei primi impatti sarà sulla spesa per la difesa vista la dichiarata intenzione di ridurre l’onere della Nato e della guerra in Ucraina per le finanze pubbliche americane. La necessità di costruire una difesa comune europea necessiterà una spesa che probabilmente andrà oltre il 2 per cento del Pil precedentemente stabilito e colpirà maggiormente l’Italia visto che non raggiungeremo l’1,7 nel 2027.

Ma l’impatto sui conti pubblici è solo uno degli elementi. Ironicamente molta della spesa europea per la difesa andrà a comprare proprio armamenti americani quando abbiamo un’industria europea competitiva ma troppo frammentata, e che, altrettanto ironicamente, ha tra i principali clienti la difesa americana: ho calcolato che in media le prime sei aziende europee generano il 19 per cento dei ricavi negli Stati Uniti rispetto al 21 nel proprio paese.

Se in Europa ci fosse la volontà di aggregare l’industria attorno a pochi grandi gruppi verso cui indirizzare la maggiore spesa per la difesa, ci sarebbero le condizioni per creare un settore competitivo con gli Usa, con una ricaduta sulla produttività in generale visto che la difesa è una tra le industrie tecnologicamente più avanzate.

Europa tra due fuochi

Trump considera il disavanzo commerciale il problema numero uno per l’economia americana e vede nei dazi il principale strumento per risolverlo, anche perché vuole usare gli introiti così acquisiti per ridurre le imposte. A differenza della sua prima presidenza però non sarà la Cina in cima alle sue priorità, ma il disavanzo con l’Europa: mentre le esportazioni nette cinesi verso gli Usa rimango in valore assoluto superiori a quelle europee (279 miliardi rispetto a 209), sono però diminuite del 20 per cento in 10 anni, rispetto a un aumento del 40 per cento di quelle europee.

Anche in questo caso l’Italia è in prima linea perché ha il secondo avanzo verso gli Usa dopo la Germania. Per l’Europa i dazi saranno recessivi perché gli esportatori o perderanno quote di mercato negli Usa, o cercheranno di mantenerle non aumentando i prezzi in dollari, ma riducendo così i margini, che poi cercheranno di recuperare tagliando il costo del lavoro. Una possibile strategia, per chi avrà la forza finanziaria per farlo, sarà quella di spostare capacità produttiva negli Usa facendo acquisizioni e investimenti in quel paese; comunque, con ripercussioni sull’occupazione e gli investimenti in Europa. In questo, il nanismo delle imprese italiane, non aiuta.

L’Europa inoltre deve vedersela anche con la Cina dove il ristagno dei consumi ha ridotto la domanda dei beni europei e punta sulle esportazioni per la crescita: sempre più verso l’Europa, che oramai ha un disavanzo simile a quello americano. L’Europa si troverà quindi impegnata su due fronti, né si può permettere una guerra commerciale aperta con Cina e Stati Uniti (e neanche le conviene): lo scenario più probabile è che si aprano le porte ai cinesi e ai loro prodotti a basso costo, a patto che investano e producano da noi, possibilmente tramite joint venture; limitando così l’impatto sull’inflazione che i dazi avrebbero.

Non uno scenario auspicabile, ma realistico. Se l’Europa si trova tra due fuochi, Cina e Trumpeconomics, è perché ha sposato un modello economico incentrato sulle esportazioni e l’industria, a scapito dei consumi: se fossero i consumi a trainare la crescita, la domanda si riverserebbe maggiormente sui servizi che sono per loro natura prevalentemente domestici, e non importati. E questo vale particolarmente per Germania e Italia: sarebbe ora di riconsiderare il nostro modello di crescita.

Sul lato fiscale Trump ha promesso il rinnovo delle esenzioni fiscali che scadono a fine 2025 per gli individui ed evitare un aumento di fatto delle imposte: l’impatto sarà prevalentemente domestico. Diverse le conseguenze per l’Europa della riduzione del corporate income tax, altro cavallo di battaglia della prima presidenza Trump, perché aumenterà ancora di più il divario di redditività delle imprese americane, e quindi la loro competitività, rispetto alle europee, dovuta alla maggiore esposizione ai settori ad alta produttività: si stima infatti che il rendimento sul capitale medio nel 2025 delle imprese quotate a Wall Street raggiungerà il 21 per cento rispetto al 13 di quelle europee, un gap che già si è allargato rispetto al quinquennio pre-Covid.

La redditività del capitale americano potrebbe ricevere un ulteriore impulso da una deregulation che vuole favorire start up, fusioni e acquisizioni e l’accesso del risparmio delle famiglie al venture capital e al private equity nei settori tecnologici come intelligenza artificiale, cybersecurity, difesa, aerospaziale e comunicazioni, prioritari per la nuova amministrazione (visto anche l’influenza di Elon Musk). In questo l’Europa può e deve fare molto di più.

Il Congresso americano ha già rigettato la richiesta del regolamentatore di aumentare la patrimonializzazione delle maggiori banche secondo gli accordi di Basilea 3, e che Trump osteggia. Questo pone il sistema bancario europeo, che invece deve adeguarsi a Basilea 3 ed è frammentato in tanti istituti a carattere nazionale, in una situazione di grande svantaggio nel sostenere la crescita delle imprese europee.

La regolamentazione europea si è concentrata in modo eccessivo sulla crescente patrimonializzazione delle banche, che queste hanno raggiunto prevalentemente attraverso una riduzione della rischiosità dei loro attivi, puntando sulle commissioni e la distribuzione di prodotti finanziari ai risparmiatori. Il risultato è che le grandi banche e i fondi americani stanno diventando la principale fonte di capitale di rischio per le imprese europee. All’Europa, quindi, non bastano le fusioni bancarie transfrontaliere, per quanto auspicabili, se non si crea un grande mercato unico dei capitali.

Il ritorno al fossile

Trump vuole eliminare gli incentivi alla transizione ambientale, ritornando alle fonti fossili. L’impatto immediato sarà che l’industria americana godrà di un costo dell’energia elettrica ancora più basso di quello europeo: per esempio, una società elettrica ha già annunciato il rinvio della chiusura delle centrali a carbone, inquinanti ma economiche, mentre Amazon, Meta e Microsoft si aspettano che venga a cadere l’opposizione del regolamentatore ai loro progetti di investimento nel nucleare per avere energia a basso costo per il cloud.

Sulla transizione ambientale, tuttavia, l’Europa, non può cambiare rotta, principalmente perché priva di risorse energetiche, e la dipendenza dal gas russo ha insegnato quanto sia pericoloso affidarsi a un unico fornitore. Tuttavia, ci deve essere la consapevolezza che la transizione richiede enormi finanziamenti pubblici perché i capitali privati non bastano, e che gli investimenti nell’ambiente, come peraltro quelli per la difesa, non devono essere sacrificati sull’altare dell’austerità, in quanto capaci di aumentare in modo permanente la produttività; oltre a un approccio più pragmatico e meno ideologico. Questo a prescindere dalle proposte di mutualizzazione del debito.

A ben vedere l’arrivo di Trump ha reso più evidenti le carenze del sistema produttivo e finanziario europeo che ne limitano la competitività, già ben identificate nel Rapporto Draghi; che ha pure indicato la strada per superarle. Speriamo dunque che l’avvento di Trump aumenti la consapevolezza tra i governi europei dei limiti della nostra competitività e dell’urgenza di una maggiore integrazione; ma aumenti anche la determinazione a porre in atto le riforme necessarie.

Un auspicio, temo, che si scontra con l’instabilità politica e i crescenti nazionalismi che stanno attraversando l’Europa.

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