La legge di Bilancio estende il prelievo del 3 per cento sui ricavi a tutte le imprese che vendono servizi digitali in rete. L’abolizione limite dei 750 milioni di fatturato annuo oltre il quale l’imposta è stata finora applicata finisce per favorire le multinazionali come Meta, Google e Amazon, forti di una struttura societaria che permette di eludere facilmente e legalmente l’imposizione
La legge di bilancio, approdata lunedì in parlamento, estende la web tax a tutte le imprese, dai colossi del web, alle piccole e medie imprese e alle startup che, se vorranno offrire servizi digitali in Italia, dovranno versare una imposta del tre percento sui ricavi delle vendite. L’imposta si applica ai ricavi da pubblicità digitale, accesso alle piattaforme web e trasmissione di dati raccolti dagli utenti.
A caccia di risorse per sostenere una manovra restrittiva e senza una visione a lungo termine, il governo ha messo mano, modificandolo, a un provvedimento nato nel 2019 con l’obiettivo di tassare i ricavi realizzati in Italia da parte delle big tech, le multinazionali che operano su internet come Meta, Google e Amazon, e che finora ha raccolto circa 400 milioni di euro.
Quella norma prevede un’imposta del tre percento sui ricavi delle aziende digitali con un fatturato di almeno 750 milioni di euro, di cui almeno 5,5 milioni realizzati in Italia.
Con l’eliminazione delle soglie di fatturato, all’articolo 4 del disegno di legge di bilancio, la web tax diviene, a partire da gennaio 2026, un’imposta sui ricavi a cui sono soggette tutte le imprese, indistintamente, che operano nella vendita di servizi digitali, e quindi dai colossi del web come Google all’impresa di famiglia con pochi dipendenti, alle startup e ai giornali on line, grandi e piccoli.
La Federazione italiana editori giornali (Fieg) ha espresso «stupore e amarezza per la norma» e auspicato «un intervento correttivo del Parlamento che eviti la beffa di una nuova tassazione sulle imprese italiane del settore». Secondo la Fieg «con l’estensione della platea dei contribuenti l’epilogo della web-tax è paradossale: si colpiscono tutte le imprese digitali italiane, sottoponendole ad una duplice tassazione e accentuando così la disparità di trattamento e lo svantaggio competitivo nei confronti dei colossi globali del web».
L’introduzione di un correttivo alla norma prevista nel Ddl bilancio è stata richiesta anche dal direttore politiche economiche di Confartigianato Bruno Panieri, in rappresentanza anche di Cna e Casartigiani, durante un’audizione sulla manovra nelle Commissioni bilancio di Camera e Senato: «non va nella direzione giusta l’individuazione di una web tax che, con lo scopo di andare a ridurre una competizione sleale tra grossi player del mercato digitale, finisce per penalizzare tutte le imprese».
Un favore ai big
La web tax, se modificata come vuole l’articolo quattro della legge di bilancio, ribalta l’obiettivo originario e invece di ridurre il vantaggio competitivo dei colossi digitali finirà per favorirlo. In che modo? Poiché è una tassa sui ricavi e non sugli utili, le multinazionali, che notoriamente godono di capacità strutturali e strategiche tali da trarre vantaggio dalle normative fiscali potranno sostenerla più agevolmente rispetto alle imprese più piccole che non dispongono delle stesse capacità. I grandi gruppi infatti godono di una struttura societaria che può favorire, legalmente, la riduzione della pressione fiscale attraverso, per esempio, la forma giuridica o le fusioni e le scissioni; l’incremento delle spese deducibili, gli investimenti; l’impiego di regimi fiscali agevolati.
Di «modifica peggiorativa della web tax» parla Antonio Misiani della segreteria Pd, responsabile economia, finanze, imprese e infrastrutture, che all’epoca dell’introduzione della web tax nel 2019 era vice ministro dell’economia: «Entrambi i tetti saranno eliminati, e questo significa che il prelievo del tre percento sui servizi digitali riguarderà tutti gli operatori del settore, dai giganti alle piccole imprese digitali. Questo governo dimostra di essere pronto a sacrificare ogni opportunità di crescita del digitale e dell’innovazione sull’altare delle entrate fiscali, distruggendo un ecosistema vitale per il futuro del Paese». Per cui, aggiunge Misiani, «Le piccole e medie imprese digitali, che rappresentano il motore dell’innovazione, verranno schiacciate sotto il peso di un fisco miope e distruttivo, penalizzando importanti opportunità di crescita e sviluppo per le nuove generazioni».
Oltre che dai partiti dell’opposizione, la levata di scudi c’è anche all’interno della stessa maggioranza e arriva dalle file di Forza Italia. All’assemblea annuale dell’Unione industriali di Torino, il vicepremier e ministro degli esteri, Antonio Tajani, ha datto che «in Parlamento si può sempre migliorare. E lo abbiamo anche detto in Consiglio dei ministri, si possono fare alcune verifiche». Si vedrà.
Ostacoli globali
La web tax è stata a suo tempo introdotta come misura transitoria in attesa che i Paesi membri dell’Ocse si accordassero sul pilastro 1 della riforma della tassazione delle multinazionali, quello cioè per cui le grandi corporate, ovvero quelle con ricavi globali superiori a 20 miliardi di euro e un margine di utile prima delle imposte superiore al 10%, sono tenute a pagare le tasse nei Paesi in cui vendono prodotti e servizi e non in base a dove si trova la sede centrale.
A febbraio di quest’anno gli Stati Uniti e cinque paesi europei, tra cui l’Italia, hanno concordato di estendere al 30 giugno la tregua commerciale raggiunta nel 2021 sulle tasse sui servizi digitali, vista la richiesta del G20 e dei paesi dell’Ocse che il testo del pilastro 1 fosse finalizzato entro quella stessa data. In base a tale accordo Austria, Francia, Italia, Spagna e Regno Unito avrebbero mantenuto in vigore le tasse digitali nazionali fino all’attuazione dell’accordo fiscale globale sul pilastro 1 senza rischiare ritorsioni, tipo dazi, da parte di Washington, visto che il pilastro 1 dell’iniziativa Ocse si rivolge principalmente ai giganti digitali con sede negli Stati Uniti.
Ma a fine giugno l’accordo transitorio per il passaggio dalle attuali imposte sui servizi digitali a una soluzione multilaterale dell’iniziativa Ocse è scaduto senza che il pilastro 1 sia stato approvato.
Che l’Italia avrebbe potuto mantenere e rivedere la tassa nazionale sui servizi digitali in caso di fallimento dell’accordo internazionale sulla tassazione delle grandi aziende non è una sorpresa, lo aveva detto il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti quando, a marzo, rivolgendosi al Parlamento, aveva affermato che «se un accordo multilaterale si rivelasse impossibile, il governo valuterà la possibilità di mantenere e modificare la propria tassa digitale», aggiungendo che «prenderà in considerazione il quadro delle relazioni internazionali».
Che ci sia un rischio ritorsioni da parte degli Usa in termini di dazi più alti e l’esecutivo ne sia consapevole è evidente. «Non possiamo andare oltre», l’Italia deve essere cauta nel tassare più pesantemente le società del web perché rischia ritorsioni da parte degli Stati Uniti, aveva detto il viceministro dell’Economia Maurizio Leo in un’audizione parlamentare di maggio 2023.
Un rischio che l’attuale esecutivo è disposto evidentemente a correre pur di rastrellare risorse per la manovra. Rischio che del resto aveva corso anche il governo del 2019 con l’introduzione della tassa sui servizi digitali nonostante le minacce di ritorsioni da parte di Washington che poche settimane prima che la tassa fosse approvata dal parlamento, aveva ripetutamente affermato che la norma avrebbe colpito ingiustamente le aziende statunitensi. Ora, se Washington si farà sentire, lo vedremo dopo le presidenziali, con il nuovo inquilino della Casa bianca.
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