- Un’analisi dei risultati del primo turno delle elezioni presidenziali francesi ci fa comprendere che esiste una radice storica comune tra la crisi globale che stiamo vivendo e il brivido antieuropeista prospettato da un’improbabile (allorché possibile) vittoria del Rassemblement National.
- Sommando i voti raccolti da Le Pen, Jean-Luc Mélenchon ed Éric Zemmour, più del 50 per cento dei francesi ha votato forze con una precisa identità antagonista: anti europea, anti elitaria, anti sistema.
- Alla fine a decretare il successo delle forze “anti” è stata proprio la politica tradizionale, incapace di aprirsi ad una più vasta ricerca di punti di dialogo, ma decisa a dare battaglia su un singolo argomento, spesso proprio quello usato dagli oppositori per radunare i propri sostenitori.
Il nuovo ballottaggio che attende domenica Emmanuel Macron e Marine Le Pen appare a molti commentatori politici come un déjà vu del 2017 che difficilmente distoglierà lo sguardo dell’Europa dall’Ucraina.
Un’analisi dei risultati del primo turno delle elezioni presidenziali francesi ci fa invece comprendere che esiste una radice storica comune tra la crisi globale che stiamo vivendo e il brivido antieuropeista prospettato da un’improbabile (allorché possibile) vittoria del Rassemblement National.
Sommando i voti raccolti da Le Pen, Jean-Luc Mélenchon ed Éric Zemmour, più del 50 per cento dei francesi ha votato forze con una precisa identità antagonista: anti europea, anti elitaria, anti sistema. Proprio nel momento in cui l’Europa sembra ricompattarsi, gli oppositori dell’Unione si fanno avanti da entrambi i lati del parlamento francese. Un paradosso? No, se consideriamo questi voti come grida di una parte della società che sta cercando da tempo un’identità nella quale specchiarsi. Per quanto il loro riflesso contenga sullo sfondo anche una visione del futuro assai meno rassicurante, per noi è giunto il tempo di tenerne conto.
L’alternativa
Nell’Europa formatasi nel Secondo dopoguerra il compito di portare avanti istanze alternative alle idee di liberalismo e globalizzazione, insite nel capitalismo, era storicamente affidato a una sinistra nata guardando a est: un blocco di idee omogeneo contrapposto a maggioranze di governo definibili come centrodestra o al massimo socialismo liberale. La fine della guerra fredda ha causato una mancanza di alternativa che ha finito per mettere in crisi anche le forze sostenitrici del pensiero uscito vincente dallo scontro.
Le democrazie progrediscono sulla contrapposizione tra visioni anche molto diverse, ma se questa conflittualità viene surrogata da un generico “bisogno di stabilità” da conseguire a tutti i costi, anche l’identità politica della società si svuota e le persone cercano altre certezze.
L’Europa in particolare ha costruito sulla globalizzazione una promessa di prosperità economica diventata un dogma. Questo appiattimento del pensiero da un lato ci ha fatto ignorare altri modelli vicini a noi, fino a quando questi non hanno reclamato la nostra attenzione con le armi; dall’altro ha creato un problema interno: alcuni cittadini hanno cominciato a cercare altrove quella consapevolezza politica identitaria che era una prerogativa delle singole società europee e lo hanno fatto perché la percepivano necessaria quanto il benessere economico.
C’è voluto tempo, ma alla fine la stagnazione di pensiero ha prodotto una classe politica che ha colto le loro istanze approfittandone spesso in maniera strumentale. Parole come tradizione, valori, patria, ovvero l’esatta antitesi della globalizzazione, sono diventate le loro bandiere.
Colpa della politica
Continuare il confronto politico con queste forze misurandosi sui loro argomenti significa, però, non aver compreso il problema. Un errore che sarà probabilmente amplificato dalla narrazione dei media, da qui al ballottaggio, incentrata sul pro e contro Europa.
Ma l’esistenza del punto focale anti europeista che in Francia ha messo in vetrina movimenti così diversi, non significa che ciascuno di essi non sia portatore di molte altre istanze. Dal 1989 il mondo è più che mai multipolare, anzi è questa complessa pluralità identitaria che ha creato uno smarrimento negli elettori e il suo ricompattarsi in schieramenti così eterogenei.
Alla fine a decretare il successo delle forze “anti” è stata proprio la politica tradizionale, incapace di aprirsi ad una più vasta ricerca di punti di dialogo, ma decisa a dare battaglia su un singolo argomento, spesso proprio quello usato dagli oppositori per radunare i propri sostenitori.
Di nuovo un appiattimento verso una sola identità politica che non giova a nessuno. Vedere l’altro solo come nemico da demonizzare è il primo passo per rafforzarlo. Riconoscerlo come avversario e istituire un dialogo su una molteplicità di questioni che potrebbero interessare anche i suoi elettori è invece la strada verso la ricerca di una convivenza che ha come risultato minimo quantomeno il rinvigorimento della dialettica democratica.
Se Marie Le Pen perderà l’Eliseo, Bruxelles festeggerà anche uno scampato pericolo. Ma se l’Europa continuerà ad ignorare questa molteplicità di manifestazioni identitarie della società ci saranno inevitabilmente altri confronti, scontri, conflitti. Se da questi nasceranno altri Orbán, altri Putin, altri Erdogan, dipenderà dalla nostra capacità di ascoltare.
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