Urne aperte in Iran per scegliere il successore di Ebrahim Raisi, il presidente della Repubblica islamica morto in un incidente in elicottero lo scorso 19 maggio. Degli 80 candidati che si erano inizialmente presentati, in sei hanno passato il vaglio del Consiglio dei guardiani, organo dipendente in larga parte dalla guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei.

Tra questi, solo l’ex ministro della Sanità Masoud Pezeshkian si distingue per non essere un conservatore in senso stretto, mentre gli altri sono tutti espressione dell’ala più intransigente del regime, a partire dai due grandi favoriti: l’attuale presidente del parlamento Mohammad Bagher Ghalibaf e Saeed Jalili, in passato a capo dei negoziatori sul nucleare.

«Premesso che non sono elezioni libere e competitive, qualsiasi nome esca dalle urne sarà comunque in continuità con la linea dell’élite della Repubblica islamica», spiega Pejman Abdolmohammadi, professore italo-iraniano di Relazioni internazionali del Medio Oriente all’università di Trento. Nel frattempo due candidati conservatori si sono ritirati dalla corsa per appoggiare Ghalibaf e Jalili.

Bassa affluenza

La vera vincitrice, però, rischia di essere l’affluenza, in picchiata negli ultimi anni: si è passati dal 76 per cento del 2013 al 70 del 2017 fino al 48 del 2021. Alle elezioni legislative dello scorso marzo sono andati a votare solo quattro iraniani su dieci. Lo stesso Khamenei ha richiesto la «massima partecipazione», l’unico modo «con cui la Repubblica islamica può vincere i suoi nemici».

Anche la candidatura dell’unico riformista, secondo Abdolmohammadi, «serve al sistema per far aumentare un po’ l’affluenza e far vedere che si è legittimati dalla popolazione». Il riformismo in Iran è diverso rispetto a quello democratico e liberale, e come i conservatori «anche loro si trovano all’interno del perimetro dell’islam politico», aggiunge.

In questa campagna elettorale il grande sponsor di Pezeshkian è stato l’ex ministro degli Esteri, Mohammad Zarif, che negli ultimi comizi ha attaccato molte voci critiche dell’ortodossia del regime, come la «traditrice» Masih Alinejad, attivista per i diritti delle donne.

Boicottaggi

La scelta del successore di Raisi cade in un periodo di turbolenze regionali e malcontento interno. L’economia è a terra e la disoccupazione è alta. Rispetto al 2023 il prezzo di frutta e verdura è aumentato del 70 per cento, il valore della moneta è a picco (nel 2015 un dollaro corrispondeva a 32mila riyal, ora a 580mila). Ma soprattutto, sono le prime elezioni presidenziali dallo scoppio delle proteste per la morte di Masha Amini.

Alla vigilia del voto le madri dei manifestanti uccisi in questi anni hanno diffuso un comunicato in cui invitano a boicottare le elezioni. Messaggi simili sono arrivati gli scorsi giorni da intellettuali e attivisti. Come la Nobel per la pace Narges Mohammadi, che dal carcere ha invitato a disertare le urne. O come l’altra premio Nobel iraniana, Shirin Ebadi. «Hai bisogno dei nostri voti? Restituisci i nostri figli», ha scritto in un post sui social.

«Una delle voci della società iraniana sarà sicuramente il boicottaggio – sottolinea Abdolmohammadi – ma non si limiterà a quello. Ormai è una società post Repubblica islamica nei valori cultuali, ma è ancora controllata da chi ha in mano la forza. E non credo che il regime, qualsiasi candidato vinca, si spinga a concedere nuove libertà».

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