Il rapporto tra religiosi e birra è piuttosto diffuso nell’immaginario comune: i birrifici trappisti sono i principali rappresentanti di questo legame. Pur essendo fortemente legati alle tradizioni hanno però nell’organizzazione e nel modo di pensare il lavoro un approccio estremamente contemporaneo
Non serve essere grandi appassionati o esperti per sapere che i religiosi sono una delle categorie che più ha contribuito alla produzione e alla diffusione della birra in Europa. L’immagine del frate che tiene in mano un boccale o che è intento a roteare un lungo bastone dentro un capiente paiolo sono note praticamente a tutti.
Forse è meno noto, invece, che fu una monaca benedettina tedesca vissuta tra la fine dell’XI e l’inizio del XII secolo, Hildegard von Bingen, a suggerire per prima l’utilizzo esclusivo del luppolo come pianta aromatizzante della birra. Un’innovazione che dura ancora oggi e che è stata rivoluzionaria soprattutto perché il luppolo contribuì in modo decisivo a migliorare la qualità delle birre in un’epoca nella quale non c’era la possibilità di conservare la bevanda al freddo.
La svolta di Aquisgrana
Questo legame così evidente oggi, però non è sempre esistito. Per diversi secoli, e più nel dettaglio, fino al sinodo di Aquisgrana che si svolse a cavallo tra l’816 e l’817 d.C., la chiesa cattolica, infatti, suggeriva ai suoi ministri e ai suoi fedeli di evitare il consumo di birra, preferendole il vino anche in quei luoghi dove non si poteva coltivare l’uva e dove quest’ultimo veniva, quindi, importato. La birra era considerata una bevanda troppo compromessa con i riti pagani per poter essere consumata durante la messa e nei luoghi di culto.
Ci vollero, prima, la diffusione del cattolicesimo in Irlanda – dove la birra era una bevanda troppo diffusa per poter essere proibita – e poi il Concilio di Aquisgrana per rendere la birra una bevanda assolutamente adeguata anche ai riti cristiani. Durante l’assemblea radunata nella città tedesca si stabilì, infatti, che ogni monaco aveva diritto a consumare mezza pinta di vino o due di buona birra a seconda di cosa fosse disponibile.
Da quel momento in avanti il rapporto tra monasteri e birra si fece sempre più solido, fino al punto che a religiosi e religiose, venne concessa la produzione esclusiva di alcune tipologie come le weizen, le famosissime birre di frumento bavaresi, che dal 1516 al 1872 potevano essere brassate solo all’interno di monasteri o in birrifici di proprietà di nobili.
La tradizione belga
È in questo contesto che nel 1836 all’interno del monastero trappista di Westmalle, nella parte nord orientale del Belgio, quasi al confine con i Paesi Bassi, si inizia a produrre birra, dando vita a una tradizione oggi diffusa e nota ben al di là dei confini belgi.
Ma andiamo con ordine. Come abbiamo già detto, la birra si produce nei monasteri sin dall’800 dopo Cristo, in parte per soddisfare il consumo interno e in parte per essere venduta all’esterno. Da questa lunga tradizione derivano quelle che oggi sono note, soprattutto in Belgio, come birre d’abbazia.
Si tratta di prodotti che non sempre sono brassati tra le mura di un monastero, anzi, nella maggior parte dei casi la struttura religiosa concede l’utilizzo del proprio nome a un birrificio laico in cambio del riconoscimento di una royalty economica.
Le regole dei trappisti
Delle birre d’abbazia fanno però parte anche le birre trappiste che hanno però regole un po’ diverse e certamente più stringenti. Per essere considerate trappiste ed essere certificate da un apposito logo – un esagono marrone con all’interno la scritta Authentic Trappist Product – le birre, ma più in generale qualsiasi prodotto alimentare o no, non solo devono essere prodotte all’interno di un'abbazia di ordine trappista, ma devono soddisfare altre due caratteristiche: devono essere brassate sotto la stretta osservazione di un monaco e i proventi generati dalla loro vendita devono essere impiegati per il sostentamento della comunità monastica o per beneficenza.
I trappisti, noti anche come cistercensi della stretta osservanza, sono un ordine monastico fondato negli anni Settanta del Seicento dall’abate francese Armand Jean Le Bouthillier de Rancé. La loro giornata è suddivisa in tre diverse occupazioni ognuna delle quali occupa otto ore: la preghiera, il lavoro e il riposo.
Trattandosi di un ordine di clausura i contatti con l’esterno sono estremamente limitati, ma questo non ha impedito ai trappisti di farsi conoscere. Anzi.
Monacali innovazioni
I birrifici trappisti – oggi dieci in tutto il mondo e cinque nel solo Belgio – sono sicuramente tra i più noti anche ai consumatori più distratti. Ma non solo. Questi luoghi che siamo soliti immaginare come fortemente legati alla tradizione e al passato, sono spesso centri di grande modernità e innovazione.
Si prenda per esempio Chimay, uno dei marchi trappisti più diffusi e bevuti nel nostro Paese (è stato anche sponsor dell’ultima edizione del Giro d’Italia oltre che essere citato in una famosa canzone di Vinicio Capossela).
L’abbazia di Notre-Dame de Scourmont (questo il nome dell’abbazia che ospita il famoso birrificio) venne fondata nel 1850 nei pressi del comune di Chimay (nella provincia vallona dell’Hainaut), da un gruppo di 17 monaci provenienti da un’altra abbazia, quella di Westvleteren (nelle Fiandre Occidentali). Questi avevano l’obiettivo di riportare lavoro in una zona rurale che era stata abbandonata dai suoi abitanti.
La prima birra venne prodotta a Chimay nel 1862 e questa tipologia resterà l’unica fino alla Seconda guerra mondiale quando il monastero sarà occupato dalle forze armate tedesche e la produzione sospesa.
È dagli anni Cinquanta del Novecento e grazie a una figura centrale per la birra belga come padre Théodore, però, che Chimay diventa ciò che oggi conosciamo tutti. Questo monaco, infatti, oltre a condurre studi brassicoli all’università di Lovanio, ha l’intuizione di isolare il ceppo di lievito che ancora oggi è impiegato nella produzione delle birre di questa abbazia trappista e che rende le sue birre uniche.
Ma anche questo non basta. È lui, infatti, a introdurre una serie di protocolli di produzione molto rigidi e di innovazioni che consentono al birrificio di crescere rapidamente sia in termini quantitativi (con i suoi 123mila ettolitri annui è il secondo più grande birrificio trappista belga), che qualitativi. Tra queste c’è sicuramente la costruzione di un laboratorio per il controllo della qualità che ogni anno conduce oltre 80mila analisi su materie prime, acqua e birre, così da poter assicurarsi che lo standard sia quello conosciuto dal consumatore.
Parlando di approccio contemporaneo, però, non si può non citare quanto avviene nel birrificio ospitato all’interno dell’abbazia di Westmalle, la prima, come abbiamo ricordato, a produrre birre nel 1836 e una delle più significative per la storia della birra grazie al fatto che al suo interno, nel 1932, è stata messa a punto la ricetta delle tripel, una delle tipologie belghe più influenti e imitate ancora oggi in tutto il mondo. A Westmalle l’approccio al lavoro dovrebbe essere preso da esempio, soprattutto in questa fase storica in cui si cerca di conciliare vita privata e lavorativa.
I monaci, infatti, hanno impostato molto rigidamente la giornata lavorativa di chi opera nel birrificio, escludendo turni notturni (ai quali un birrificio delle dimensione di Westmalle, invece, deve normalmente ricorrere) e organizzando la settimana lavorativa dal lunedì al primo pomeriggio del venerdì «per concedere a chiunque operi in azienda di passare tempo sufficiente con la propria famiglia».
Un’impostazione del lavoro che ha portato negli ultimi anni Westmalle a fare importanti investimenti in termini di nuovi macchinari e di un nuovo impianto di produzione che gli consenta non tanto di crescere in termini quantitativi (obiettivo che non è tra le priorità dei monaci), quanto di limitare gli straordinari e di migliorare la vita di chi lavora.
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